Il Dalai Lama compie 90 anni. La vita di un costruttore di pace

Tenzin Gyatso, il 14esimo Dalai Lama, si appresta a compiere 90 anni e annuncia la preparazione della sua successione.

Lhamo Dondrub, in tibetano, significa “Dea che esaudisce i desideri”. Prese questo nome, alla nascita, il 14esimo e attuale Dalai Lama. Era il 6 luglio del 1935: quel bambino veniva alla luce in una famiglia di agricoltori numerosa e povera, in un piccolo villaggio al confine con la Cina, nella regione di Amdo, che in quel periodo era nelle mani di un signore della guerra. Quel piccolo tibetano, all’età di appena due anni, fu indicato delle autorità religiose come la reincarnazione del precedente Dalai Lama.

Le origini, la reincarnazione, l’intronizzazione: i primi anni del Dalai Lama

Divenne così il nuovo capo spirituale e politico dei buddisti, assumendo il nuovo nome di Tenzin Gyatso. Durante la gioventù studiò logica, belle arti, grammatica, medicina, oltre alla lingua inglese e alla filosofia buddista. L’esame finale sarà sostenuto a Lhassa, presso il tempio di Jokhang nel 1959.

Il Dalai Lama in una foto del 1959
Il Dalai Lama in una foto del 1959 © Ohhdl

L’esercizio del suo potere politico era però già cominciato con la sua intronizzazione nel 1950, a 15 anni. Uno dei primi gesti fu la decretazione di un’amnistia generale per i prigionieri. Quattro anni più tardi si recò a Pachino, che ormai da tempo aveva invaso il Tibet, con l’obiettivo di incontrare Mao Tse-tung. Ciò nonostante, a partire dal 1959 sarà costretto all’esilio, dopo la repressione delle proteste in Tibet da parte dell’esercito cinese.

La rivolta tibetana del 1959 prese il via il 10 marzo nella capitala Lhassa, a otto anni dalla firma di un accordo di 17 punti sulla liberazione pacifica del Tibet che era stato firmato da rappresentanti del Dalai Lama e della Cina. Il documento, di fatto, riconosceva la sovranità di Pechino sul Tibet: una scelta che apparve obbligata per Tenzin Gyatso, poiché la porzione orientale del territorio era già stata occupata militarmente e il rischio era che l’intero Tibet potesse esserlo. Quel giorno, circa 30mila abitanti della regione circondarono il Norbulingka, il palazzo estivo del Dalai Lama, per impedire che quest’ultimo fosse prelevato dalle forze armate cinesi (si temeva infatti che potesse essere arrestato). Ne scaturirono scontri che portarono a migliaia di vittime. La rivolta da allora è commemorata ogni anno dal governo tibetano in esilio.

Da quel momento cominciò una lunga battaglia per l’indipendenza, con la questione tibetana che sarà oggetto anche di tre risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Assieme a un lungo processo di democratizzazione del governo in esilio.

Il Nobel per la pace nel 1989 e l’impegno per clima e ambiente

Per decenni, contemporaneamente, il Dalai Lama si è speso per una soluzione pacifica con innumerevoli iniziative. Nel 1987 propose un piano in cinque punti a tale scopo, presentato anche agli Stati Uniti. Un impegno che due anni dopo gli valse il premio Nobel per la pace. Il piano prevedeva la trasformazione del Tibet in una zona di pace, l’abbandono della politica cinese di trasferimento della popolazione,  il rispetto dei diritti umani fondamentali e delle libertà democratiche del popolo tibetano, il ripristino e la protezione dell’ambiente tibetano (assieme alla cessazione delle attività nucleari cinesi sul territorio) e l’avvio di negoziati per stabilire il futuro status della regione, nonché le relazioni tra i popoli cinese e tibetano.

Nel 2015, in occasione della Ventunesima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (la Cop21 che portò all’Accordo di Parigi), si rivolse ai governi di tutto il mondo con un appello per salvare l’altopiano tibetano dagli effetti del riscaldamento globale. Un anno più tardi, si recò a Milano a un evento organizzato dall’Istituto di studi di buddismo tibetano Ghe Pel Ling, esprimendosi con queste parole: “Questo è il secolo dell’unità, della pace. Dobbiamo usare l’intelligenza e il dialogo per risolvere i conflitti fra popoli. Non si può etichettare il terrorismo con una religione. Non esiste un terrorismo islamico o buddista. Nel momento in cui uccidi o danneggi l’altro, sei automaticamente fuori dall’ambito religioso”.

In un’intervista concessa al Guardian e a Channel 4 nel 2020, il Dalai Lama tornò sulla questione climatica, spiegando che se Buddha dovesse scendere in terra oggi, “sarebbe certamente un ambientalista”.

“Se Buddha scendesse in terra oggi, sarebbe un ambientalista”

Nel 2021 partecipò a un evento assieme all’attivista svedese Greta Thunberg e ad alcuni scienziati per parlare di crisi climatica. L’autorità religiosa si era espressa in quell’occasione con parole nette: “La realtà dei fatti ci dice che un pensiero incentrato sulla mentalità dell’io, che porta a pensare solo a noi stessi, è ormai irrealistico. Il futuro di un singolo individuo è legato all’intera umanità e al Pianeta stesso, ad un’umanità più felice e un mondo più sano”.

L’incontro tra il Dalai Lama e Greta Thunberg
L’incontro tra il Dalai Lama e Greta Thunberg © Charles McQuillan/Getty Images

Per perorare la causa tibetana, e più in generale la pace, la fratellanza e la necessità di tutelare l’ambiente, il Dalai Lama ha effettuato viaggi in tutto il mondo, ricevendo decine di onorificenze e lauree honoris causa proprio per l’impegno contro le violenze, i conflitti, nonché a favore del dialogo interreligioso. Ha scritto inoltre decine di libri, compreso uno sulla compassione, rivolto ai bambini.

L’annuncio sulla successione e la reazione del governo cinese

Oggi, alle soglie dei suoi 90 anni, il Dalai Lama è proiettato soprattutto sulla sua successione. La nuova guida religiosa dovrà a suo avviso concentrarsi soprattutto sul proseguimento della battaglia per l’autonomia e l’indipendenza del Tibet, dal momento che – esattamente come il Dalai Lama, anche le autorità esecutive (l’Amministrazione centrale tibetana) sono in esilio nel nord dell’India.

Il capo religioso tibetano ha confermato in questo senso che un successore sarà nominato dopo la sua morte, parlando nel corso di una riunione religiosa nella località indiana di McLeod Ganj. “Ho 90 anni ma sono ancora in forma fisicamente. Durante il tempo che mi resta, continuerà a lavorare più che posso per il benessere del prossimo”, aveva dichiarato lunedì 30 giugno parlando dal suo monastero. “L’istituzione verrà perpetuata”, ha quindi confermato due giorni dopo. Una dichiarazione che non ha mancato di suscitare la reazione del ministero degli Affari esteri di Pechino, secondo il quale la scelta del nuovo Dalai Lama dovrebbe essere effettuate tramite “un’estrazione a sorte” di un nome che dovrebbe poi essere “approvato dal governo centrale”.

Il precedente del Panchen Lama nel 1995 e il rischio di uno scontro con Pechino

Le parole giunte dalla Cina mostrano quanto delicata sia la successione del Dalai Lama, persona che oggi è considerata da Pechino un pericoloso separatista. Per questa ragione il capo religioso tibetano ha già scartato con forza l’idea di una nomina effettuata dalla stessa Cina: “Chi mi succederà dovrà essere nato nel mondo libero”, ha affermato. Il rischio è che si adottino misure drastiche e drammatiche, come quella che nel 1995 portò alla scomparsa di un bambino di soli sei anni, Gedhun Choekyi Nyima, che era stato nominato Panchen Lama, seconda autorità religiosa tibetana. Sulla questione non è mai stata fatta piena chiarezza: la Cina ammise di averlo “prelevato per la sua sicurezza”, mentre il Dalai Lama nel 2018 affermò che Nyima era vivo e riceveva una normale educazione. In realtà, però, dal 1995 non è mai apparso in pubblico.

Nonostante la decisione, nel 2011, di rinunciare formalmente al potere politico da parte del Dalai Lama (a favore di un primo ministro eletto dalla diaspora), il rischio che la sua successione possa portare a nuove tensioni con Pechino è concreto. Certamente, Tenzin Gyatso tenterà di porre le basi per una transizione pacifica. Come sempre fatto nel corso della sua lunga vita.

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