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Un studio sui cambiamenti climatici ha rivelato i primi cinque paesi che sopravvivrebbero al crollo della civiltà globale. In testa c’è la Nuova Zelanda.
Nel suo saggio intitolato “Collasso”, l’antropologo statunitense Jared Diamond si chiedeva se i turisti del futuro avrebbero visitato i resti arrugginiti dei grattacieli di New York, proprio come noi oggi ammiriamo le macerie delle città maya. Quindici anni dopo l’uscita di quel libro, ci si potrebbe chiedere: dal momento che i cambiamenti climatici stanno rendendo sempre più invivibili alcune zone del Pianeta, dove abiteranno i turisti del futuro?
Una risposta c’è: i cinque paesi più resilienti alle minacce future, e che quindi più difficilmente collasseranno per effetto di una crisi energetica e ambientale, sono Nuova Zelanda, Islanda, l’isola di Tasmania (Australia), Irlanda e Regno Unito.
A spiegarlo è uno studio sugli effetti nefasti dei cambiamenti climatici sulle società, curato da due ricercatori dell’Anglia Ruskin University, Nick King e Aled Jones, i quali hanno preso in considerazione diversi fattori: fenomeni meteorologici estremi, siccità, inondazioni. Ma anche l’impatto dei movimenti delle popolazioni costrette a migrare per sopravvivere.
La Nuova Zelanda è stata indicata come quella con il maggior potenziale per sopravvivere relativamente indenne. Ciò grazie alla sua capacità di produrre energia geotermica e idroelettrica, ai suoi abbondanti terreni agricoli e alla bassa popolazione.
Islanda e Tasmania hanno caratteristiche simili: in particolare, l’Islanda si contraddistingue per la sua elevata disponibilità pro-capite di terreni agricoli. La capacità di questi terreni, al momento, è limitata a causa del clima inadatto a molti seminativi, e per questo l’Islanda rimane ancora dipendente dalle importazioni di cibo. Tuttavia, questa scarsità è compensata dalla pesca estensiva nell’Atlantico settentrionale e dall’uso di tecniche agricole integrate dalla tecnologia e dall’abbondante disponibilità di energia idroelettrica.
Anche la Tasmania è caratterizzata da una potente rete idroelettrica e l’uso del suolo è dominato dall’agricoltura nelle zone temperate con maggiori precipitazioni e dai pascoli nelle zone centrali e settentrionali più secche. Il suolo fertile (per gli standard dell’Australia) e il clima temperato e oceanico consentono un’agricoltura varia e produttiva.
Invece il Regno Unito presenta un quadro più complesso a causa della sua elevata densità di popolazione. In particolare, sebbene il Regno Unito abbia terreni generalmente fertili, ha una bassa disponibilità pro capite di terreni agricoli, sollevando interrogativi sulla futura autosufficienza. Ma è dal punto di vista energetico che il Regno Unito si rivela una nazione promettente in quanto dispone di ampie risorse di energia rinnovabile, soprattutto eolica, in costante crescita (attualmente soddisfano il 50 per cento del fabbisogno nazionale). Questa capacità, unita al fatto che il Regno Unito sia un paese in parte protetto da eventi meteorologici estremi, compensano l’alta densità di popolazione.
L’Irlanda presenta un quadro molto simile dal Regno Unito, in termini di dipendenza energetica dai combustibili fossili (in particolare gas). Ma la crescita delle fonti rinnovabili è rapida e promettente. Se consideriamo che l’Irlanda ha una popolazione molto più piccola di quella del Regno Unito, una minore domanda di energia combinata all’assenza di fonti energetiche ad alta tecnologia (nucleare) significa una transizione energetica fattibile in tempi relativamente brevi.
Alcune nazioni presentano dunque condizioni di partenza più favorevoli rispetto ad altre in materia di adattamento ai cambiamenti climatici. Tutti e cinque i paesi della ristretta classifica sono isole, situate a latitudini temperate e con forte influenza oceanica e che quindi hanno la maggiore probabilità che condizioni relativamente stabili continuino nonostante gli effetti del riscaldamento globale.
Quando una nazione si trova incapace di adattarsi, i ricercatori evidenziano come essa vada incontro ad una concatenazione di disastri, nella quale il primo a manifestarsi è capace di guadagnare slancio e causarne un altro (un meccanismo conosciuto come “feedback positivo”). Lo studio valuta dunque, in questo senso, quali paesi siano in grado di riprendersi da un potenziale collasso o evitarlo del tutto. I fattori chiave selezionati diventano quindi la redditività dell’agricoltura, la capacità di produzione da energie rinnovabili e la coesione dei centri abitati.
“Abbiamo osservato gli shock per un certo numero di anni in tutto il mondo, da cosa sono causati e come si propagano attraverso il sistema”, ha affermato Aled Jones, il quale ha aggiunto che “essere un’isola aiuta”. Quindi la risposta starebbe nell’isolamento in un territorio di difficile accesso per la maggior parte della popolazione? Non è questa la conclusione: Jones vuole sottolineare che la ricerca non è finalizzata a incoraggiare le persone a trasferirsi in una delle cinque nazioni in grado di sopravvivere alle catastrofi, quanto, piuttosto, a evidenziare i difetti nei nostri sistemi globali.
I ricercatori hanno esaminato le cause del collasso dei sistemi complessi, dicono, in modo da avere più tempo per comprendere meglio gli eventi e rendersi conto quanto essi siano collegati tra loro. Gli shock, infatti, sono rapidi e per saper fronteggiare al meglio a tali sconvolgimenti è necessario essere preparati. Come ci ha insegnato la pandemia in corso.
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