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Le spiagge del golfo del Messico sono disseminate di agglomerati di petrolio e sabbia che impiegheranno almeno 30 anni a decomporsi.
Sono trascorsi quasi dieci anni dal giorno in cui le acque del golfo del Messico diventarono nere, devastate dal più grave disastro ambientale della storia americana: l’incidente della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon. Il 20 aprile del 2010 la piattaforma, di proprietà della britannica Bp, subì un grave guasto a causa dell’esplosione di un pozzo a 1.500 metri di profondità, iniziando a vomitare petrolio in mare al ritmo di mille barili al giorno, per 87 giorni consecutivi.
Da allora l’ambiente e la fauna del golfo stanno pagando un prezzo salatissimo: circa il 12 per cento della popolazione di pellicani bruni (Pelecanus occidentalis) del golfo del Messico è morta in seguito all’incidente e tursiopi e tartarughe marine stanno morendo a un ritmo senza precedenti. Gli effetti potrebbero essere anche più duraturi di quanto si pensasse, il petrolio sepolto nelle spiagge della costa del golfo potrebbe infatti richiedere decenni per biodegradarsi.
È quanto sostiene un nuovo studio condotto da un gruppo di ecologi dell’università statale della Florida e pubblicato sulla rivista Scientific Reports. Secondo Markus Huettel, principale autore dello studio e professore di oceanografia dell’ateneo statunitense, le spiagge del golfo sono disseminate di agglomerati delle dimensioni di una pallina da golf di petrolio e sabbia, che impiegano almeno 30 anni a decomporsi. “Questo petrolio contiene sostanze dannose per l’ambiente e per l’uomo – ha affermato Huettel – e può persistere per lunghi periodi di tempo”.
Il petrolio fuoriuscito dalla Deepwater Horizon ha contaminato circa 965 chilometri di spiagge sabbiose lungo la costa del golfo del Messico. Parte del petrolio riversatosi sulle coste fu rapidamente rimosso, grazie sia all’instancabile lavorio di microbi e microrganismi che abitano nella sabbia, che alle numerose operazioni di pulizia effettuate. Questi interventi non sono tuttavia stati sufficienti, hanno evidenziato i ricercatori dell’università statale della Florida, poiché alcuni degli agglomerati di greggio sono sepolti fino a 70 centimetri di profondità nella sabbia.
Per quantificare l’entità del problema, Huettel e il suo team hanno condotto un esperimento, durato tre anni, in una spiaggia di Pensacola, nella Florida settentrionale. L’obiettivo era quantificare il tempo necessario agli agglomerati di petrolio sepolti entro 50 centimetri di sabbia per degradarsi. I ricercatori hanno scoperto che questi grumi sepolti di olio e sedimenti, che di solito misurano meno di 10 centimetri di diametro, impiegano in media 32 anni per decomporsi completamente. Gli agglomerati più grandi, seppure presenti in minor numero, persistono invece nell’ambiente ancora più a lungo. “Abbiamo anche trovato agglomerati di sedimenti delle dimensioni di una stampante da ufficio e persino più grandi – ha spiegato Huettel. – Se sepolti sotto la sabbia, questi residui potrebbero resistere molto più a lungo rispetto ai nostri campioni delle dimensioni di una pallina da golf”.
Trenta anni sono indubbiamente un periodo molto lungo, lo studio ha tuttavia dimostrato che questo tempo potrebbe dilatarsi ulteriormente, superando i cento anni, senza le peculiari proprietà ecologiche di una spiaggia sabbiosa, necessarie per favorire la decomposizione del materiale organico. La sabbia presente nelle spiagge, ricche di colonie microbiche e microrganismi, è infatti in grado di rimuovere il materiale degradabile in un tempo relativamente breve, anche grazie all’incessabile moto ondoso.
“La spiaggia, respirando con il ritmo delle maree, può quindi essere paragonata a un grande organismo che digerisce aerobicamente la materia organica, incluso il petrolio, inalando ossigeno ed espirando anidride carbonica”, ha detto Huettel. Senza questo processo naturale, a rischio in molte aree costiere a causa del declino degli ecosistemi marini, gli agglomerati di petrolio e altre sostanze tossiche si accumulerebbero sulla spiaggia, compromettendo l’ecologia della zona e la qualità dell’acqua.
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