
L’aderenza alla dieta mediterranea è stata associata dai ricercatori a una salute cerebrale ottimale, con una migliore integrità della sostanza bianca, riduzione dell’infiammazione e dello stress ossidativo.
Un gruppo di associazioni ambientaliste ha presentato alla Camera dei Deputati una legge per fermare la produzione insostenibile degli allevamenti intensivi.
Una proposta di legge per cambiare gli allevamenti intensivi: l’hanno presentata il 22 febbraio scorso, in una conferenza stampa presso la Camera dei Deputati, Greenpeace, Wwf Italia, Isde – Medici per l’ambiente, Lipu, Terra!. A sostegno dell’iniziativa sono intervenuti, tra gli altri, i deputati Michela Vittoria Brambilla (Noi Moderati), Eleonora Evi (Alleanza Verdi Sinistra), Carmen Di Lauro (Movimento 5 Stelle), Andrea Orlando (Partito Democratico) e il Comitato locale G.A.E.T.A. di Schivenoglia (MN).
L’obiettivo della proposta è cambiare il sistema produttivo degli allevamenti intensivi che, come sottolineato dai relatori, danneggia la salute, il benessere degli animali, l’ambiente e le piccole aziende. Le richieste delle associazioni ambientaliste sono:
Gli allevamenti intensivi sono una delle principali cause dei cambiamenti climatici in quanto sono responsabili del 16,5 per cento delle emissioni globali di gas serra (cifra paragonabile agli effetti dell’intero settore dei trasporti) e del 60 per cento delle emissioni dell’intero settore agroalimentare. Si tratta di metano principalmente, ma anche ammoniaca: in Italia, in particolare, il sistema zootecnico è attualmente responsabile di oltre due terzi delle emissioni di ammoniaca, la seconda causa di formazione delle polveri sottili (PM2,5), responsabili di migliaia di morti premature ogni anno nel nostro Paese. Questo è vero soprattutto nella pianura Padana dove c’è un’alta concentrazione di allevamenti intensivi.
I liquami provenienti dagli allevamenti contaminano anche acqua e suolo minacciando la biodiversità. Non solo inquinamento: secondo i dati Wwf, gli allevamenti intensivi consumano fino al 10 per cento dell’acqua dolce del Pianeta e fino al 30 per cento delle terre non coperte dai ghiacci. C’è poi la questione deforestazione: il 60 per cento delle foreste pluviali (in Amazzonia questa percentuale arriva al 70 per cento) viene abbattuto proprio per ottenere pascoli e per coltivare grandi quantità di vegetali (soprattutto soia e cereali) destinati all’alimentazione animale.
Nell’Unione europea, due terzi dei cereali commercializzati diventano mangime e circa il 70 per cento dei terreni agricoli europei è destinato all’alimentazione animale, principalmente per coltivazioni come il mais che richiede tantissima acqua. Le conseguenze non riguardano solo la perdita di habitat e specie selvatiche, ma anche l’effetto serra responsabile del riscaldamento globale.
Per quanto riguarda il benessere animale, gli allevamenti intensivi sono uno dei sistemi di produzione alimentare caratterizzati da spazi sovraffollati, con luce artificiale o al buio e senza nessuna possibilità per gli animali di mettere in atto comportamenti naturali. Spesso gli animali vengono maltrattati e non ricevono assistenza sanitaria oppure si abusa dell’utilizzo di antibiotici.
Anche da qui deriva il problema dell’antibiotico-resistenza del nostro organismo che l’Oms ha recentemente definito “un’emergenza sanitaria globale”, confermato dalle statistiche che rivelano che in Europa si verificano oltre 10mila decessi l’anno per resistenza agli antibiotici, un terzo dei quali avviene in Italia.
Dal punto di vista dell’efficienza nutrizionale, nonostante il 77 per cento dei terreni agricoli mondiali sia dedicato all’allevamento, questi generano solo il 18 per cento delle calorie e il 37 per cento delle proteine totali consumate dalla popolazione mondiale.
Come riporta Greenpeace, l’80 per cento dei fondi europei per l’agricoltura italiana finisce attualmente nelle casse di appena il 20 per cento di aziende agricole. Questo sistema, di fatto, penalizza le piccole aziende e favorisce quelle di maggiori dimensioni: secondo Eurostat, in poco più di dieci anni (tra il 2004 e il 2016) l’Italia ha perso oltre 320 mila aziende, ha assistito a un calo del 38 per cento delle aziende più piccole, a un aumento del 23 per cento di quelle più grandi e del 21 per cento di quelle molto grandi. Le associazioni ambientaliste chiedono, quindi, un modello con margini di guadagno più equi per i produttori e prezzi più accessibili per i consumatori.
Negli ultimi sessant’anni, il consumo di carne mondiale è quasi triplicato passando da 25 a 80 kg all’anno a testa. In Europa, più dell’80 per cento della carne proviene da allevamenti intensivi, in Italia addirittura l’85 per cento dei polli e oltre il 95 per cento dei suini sono allevati intensivamente, e quasi tutte le vacche da latte non hanno accesso al pascolo libero.
Fino al 2 marzo, sui propri canali social, il Wwf propone la Meat free week: una settimana senza carne per ridurre concretamente l’impatto ambientale. Ogni italiano, infatti, emette fino a 4,5 kg di CO2e solo con il consumo di carne, quasi il doppio di quanto previsto dalla dieta mediterranea che genera invece solo 2,3 kg di CO2e pro capite, ma che è seguita nella sua versione originale con una ridotta presenza di carne, solo dal 13 per cento degli italiani.
Da un’indagine svolta da Altroconsumo insieme a Beuc e Icrt (organismi che raccolgono diverse organizzazioni dei consumatori in Europa e nel mondo) per conoscere l’opinione dei consumatori sul benessere degli animali da allevamento, emerge che il tema è molto importante per il 41 per cento degli italiani e che 3 intervistati su 4 sarebbero disposti a pagare un sovrapprezzo per alimenti prodotti secondo standard di benessere animale più elevati. Inoltre, la maggioranza degli intervistati (88 per cento) vorrebbe trovare su tutti i prodotti di origine animale un’etichetta simile a quella attualmente in uso per le uova che indica il metodo di allevamento.
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