Se pensiamo al concetto di “dipendenza dalle fonti fossili” non possono che venirci in mente le numerosissime produzioni direttamente legate allo sfruttamento e al consumo di carbone, petrolio e gas. L’energia elettrica, i riscaldamenti, i trasporti, così come le tante industrie pesanti come quelle metallurgiche e siderurgiche. Ma la pervasività delle fossili arriva a toccare anche altri settori che, apparentemente, si possono credere molto più lontani e “indipendenti”.
Il settore alimentare copre il 40 per cento del consumo di prodotti petrolchimici
Uno studio pubblicato mercoledì 25 giugno dal Panel internazionale di esperti sui sistemi alimentari sostenibili (Ipes-Food) rivela quanto anche il cibo che mangiamo sia vincolato alle fonti di energia più dannose per il clima della Terra. L’analisi, intitolata “Fuel to fork” spiega infatti che la produzione di ciò che serve all’umanità per nutrirsi – di conseguenza anche la sicurezza alimentare – è molto più dipendente dai combustibili fossili di quanto possiamo immaginare.
Il settore copre in effetti almeno il 15 per cento della domanda mondiale di energia prodotta da combustibili fossili. E, soprattutto, il 40 per cento del consumo di prodotti provenienti dalla filiera petrolchimica: ciò in particolare per via dei fertilizzanti di sintesi e degli imballaggi di plastica. È noto d’altra parte come la stragrande maggioranza dei cibi che compriamo nei negozi di ogni tipo – dalla grande distribuzione alle botteghe – è venduto in confezioni di plastica.
È anche per questa ragione che si “muovono” i prezzi dei generi alimentari: le ripercussioni delle tensioni geopolitiche, in altre parole, non sono visibili soltanto alle pompe di benzina. E, avverte lo studio, per i 2,8 miliardi di persone che già oggi non sono in grado di garantirsi un nutrimento adeguato, le conseguenze delle altalene sui prezzi delle derrate possono risultare drammatiche.
I prezzi del cibo dipendono anche da quelli del petrolio
Qualche esempio concreto: i prezzi dei fertilizzanti a base di azoto sono cresciuti del 20 per cento in pochissimi giorni, dopo che l’Iran ha bloccato le produzioni. Allo stesso modo l’Egitto ha sospeso il lavoro nelle sue fabbriche per via dello stop alle consegne di gas proveniente da Israele. Più in generale, “dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022, i prezzi dell’energia e dei generi alimentari sono cresciuti nettamente, con una dinamica esacerbata dalle speculazioni. Non abbiamo però imparato la lezione e non abbiamo agito per ridurre la dipendenza dai fertilizzanti chimici”, ha osservato al quotidiano Le Monde Raj Patel, ricercatore dell’università del Texas e mento dell’Ipes-Food.
Ma a pesare non sono soltanto i prodotti fertilizzanti: un altro elemento centrale è quello dei fitosanitari (pesticidi e biocidi). Nonché, altro elemento centrale, i processi di trasformazione dei cibi, che in molti casi sono ultra-energivori. Per non parlare del trasporto e della distribuzione delle merci. Il settore alimentare, insomma, rischia di rappresentare un’ancora di salvataggio per i combustibili fossili, in un’epoca in cui (faticosamente) si cerca di ridurne l’utilizzo, sottolinea il rapporto.
Per produrre cibi ultra-trasformati occorre decuplicare il consumo di energia
Un esempio è dato proprio da prodotti ultra-trasformati, per i quali l’assorbimento di energia è estremamente elevato. Ormai tali cibi sono diffusi ovunque, con enormi impatti per la salute pubblica. Secondo Ipes-Food in media per produrli è necessario dieci volte il quantitativo di energia che basta per gli alimenti tradizionali. Smettere di mangiare cibo pieno di additivi, conservanti e esaltatori del gusto, insomma, sarebbe utile per i nostri organismi e anche per il Pianeta.
Per cambiare le cose esiste una sola soluzione e si chiama agro-ecologia. Il panel di esperti cita in particolare l’esempio dello stato indiano dell’Andhra Pradesh, che ha portato avanti il più grande esperimento in termini di dimensioni a livello mondiale. Coinvolgendo milioni di contadini al fine di sperimentare metodi alternativi di coltivazione. Si dirà: per farlo servono però finanziamenti. Certo, ma secondo Patel basterebbe “smettere di sovvenzionare i combustibili fossili legati al sistema alimentare e si risparmierebbero 2.500 miliardi di dollari all’anno”.
I soldi per la transizione ci sono: basta toglierli alle fossili
Denaro che potrebbe essere reinvestito nella transizione del sistema agricolo. Ancora una volta, come sempre, è una questione di volontà politica. È dalla Cop26 di Glasgow che i governi si sono impegnati a eliminare progressivamente le sovvenzioni a combustibili fossili.
💲Food prices rise when oil prices rise.
💥When we tie #food to #fossilfuels = food price volatility & hunger.
Negli anni successivi, però, si è chiesto di limitare la questione al carbone. Poi si è avviato un braccio di ferro tra il carbone con e senza sistemi di recupero della CO2. Poi si è parlato anche delle altre fonti fossili ma evitando di menzionare la parola “uscita” e preferendo “diminuzione”, per poi arrivare alla Cop29 di Dubai all’ormai celebre formula anodina del “transitioning away”. Letteralmente, “avviando una transizione da”. Senza date, senza scadenze intermedie, senza specifiche ulteriori. E intanto le fossili continuano a imperversare in ogni ambito del nostro mondo. Anche quello alimentare.
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