In un anno e mezzo la Cina ha aumentato di 43 GW la capacità delle centrali a carbone, quanto basta per dare energia a 31 milioni di case. Ed è solo un segnale di una tendenza molto più vasta.
Mentre l’Accordo di Parigi impone di volta le spalle al carbone, la Cina va controcorrente. Come rivela uno studio di Global Energy Monitor, tra l’inizio del 2018 e il mese di giugno del 2019 il gigante asiatico ha incrementato di 43 GW la capacità delle proprie centrali, quanto basta per dare energia a 31 milioni di case. Tutto questo mentre, nel resto del Pianeta, si assisteva a una sforbiciata di 8,1 GW.
Questo revival, che va a infrangersi contro ogni principio di sostenibilità ambientale, è figlio di una manovra politica adottata tra il 2014 e il 2016. All’epoca il governo centrale aveva delegato il potere di autorizzare nuove centrali alle autorità provinciali, che erano fortemente incentivate a raggiungere determinati obiettivi economici fissati su scala locale.
In questo breve lasso di tempo è stato concesso il via libera a un’infinità di nuovi progetti per una capacità di 245 GW, che hanno alimentato artificiosamente un settore già ipertrofico. Le centrali esistenti, infatti, già oggi sono operative per circa la metà dell’orario giornaliero previsto. Dopodiché Pechino ha fatto marcia indietro, promettendo di svincolarsi dalla dipendenza dalla fonte più sporca e inquinante – e in parte riuscendoci, visto che è passata dal 68 al 59 per cento del totale dell’energia in appena sei anni, dal 2012 al 2018.
L’iter per l’apertura delle nuove centrali, però, ormai era avviato. Se si somma la capacità di quelle in costruzione e di quelle che potrebbero essere riaccese dopo un periodo di stop, si arriva addirittura a 147,7 GW. Per avere un termine di paragone, è di poco inferiore a quella di tutte le centrali dell’Unione europea messe insieme. Come sottolinea la Bbc, il gigante asiatico investe anche oltre confine: ogni quattro progetti all’estero (soprattutto tra Sudafrica, Pakistan e Bangladesh), uno è foraggiato da capitali cinesi.
Se vuole fare la sua parte per contenere l’aumento delle temperature medie globali entro i 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, sottolineano i ricercatori, la Cina deve fare esattamente il contrario: mandare in pensione il 40 per cento della sua capacità a carbone, passando dai 1.027 GW di oggi a meno di 600 GW. Anche ragionando da un punto di vista prettamente economico, la transizione energetica sta già spingendo il carbone fuori mercato (tecnicamente si parla di stranded assets, o beni incagliati).
La produzione di combustibili fossili è ancora troppo alta
Il problema non è limitato all’Asia. Uno studio appena pubblicato dall’Unep (il programma per l’ambiente delle Nazioni Unite) insieme a una cordata di istituti di ricerca, infatti, sostiene che la produzione di combustibili fossili sia spropositata.
Per la precisione, prende in esame i piani per il 2030 di dieci paesi strategici: Cina, Usa, Russia, India, Australia, Indonesia, Canada, Germania, Norvegia, Regno Unito. Complessivamente essi prevedono una produzione di carbone, gas e petrolio che porterebbe a 39 miliardi di tonnellate di emissioni di CO2. Il 53 per cento in più rispetto al livello che permetterebbe di contenere il global warming entro i 2 gradi centigradi. E cosa succede se si sposta l’asticella su un limite di 1,5 gradi, in grado di fare la differenza per la sopravvivenza di interi ecosistemi? In tal caso, la produzione sforerebbe del 120 per cento quella dovuta.
Ancora una volta, il cosiddetto gap produttivo è vertiginoso soprattutto per il carbone: entro il 2030 potrebbero esserne prodotti 5,2 miliardi di tonnellate di troppo rispetto al target dei 2 gradi, 6,4 miliardi di troppo rispetto al target di 1,5 gradi. Ma bisogna dare un taglio anche al petrolio, perché nel 2040 si produrranno 36 miliardi di barili al giorno in più rispetto al necessario per l’obiettivo dei 2 gradi centigradi. Stesso discorso per il gas naturale, la cui produzione in esubero è stimata in 1.800 miliardi di metri cubi, sempre entro il 2040.
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