
Le forze armate pesano globabilmente per il 5,5 per cento delle emissioni, e il riarmo Nato può provocare un disastro anche dal punto di vista ambientale.
Lo sostiene un nuovo rapporto della Fao secondo cui, da ora e per tutto il resto dell’anno, l’Europa dipenderà dalle importazioni di pesce, crostacei e molluschi.
Se la distruzione degli ecosistemi terrestri è ormai sotto gli occhi di tutti e si stanno prendendo provvedimenti, seppure ancora insufficienti, per provare ad invertire la situazione, sotto la superficie di mari e oceani, lontano dai nostri occhi, la devastazione procede a ritmi inimmaginabili. Una volta gli ecosistemi marini dovevano assomigliare al Serengeti, caratterizzati da uno stato di abbondanza quasi inconcepibile. Un tempo, ad esempio, secondo quanto riportato dal biologo marino Callum Roberts, si stima che alcuni banchi di aringhe che nuotavano lungo le coste britanniche potessero oscurare il fondale marino per quaranta chilometri. La pesca ha trasformato ovunque la vita dei mari, in misura maggiore di quanto siamo soliti pensare, decimando specie e alterando gli equilibri ecosistemici.
La conferma di questo trend nefasto arriva dal rapporto Stato della pesca e dell’acquacoltura mondiale (Sofia) pubblicato dalla Fao, secondo cui circa il 33 per cento degli stock ittici globali è in stato di sovrasfruttamento e circa il 60 per cento viene pescato al massimo della propria capacità. Si calcola inoltre che il 9 luglio l’Europa abbia raggiunto il suo Fish dependence day, ha cioè terminato le proprie scorte di pesce e, fino alla fine dell’anno, dipenderà dalle importazioni di pesce, crostacei e molluschi per soddisfare la richiesta dei consumatori. Quest’anno il Fish dependence day europeo è arrivato un mese prima rispetto a quanto accadeva nel 2000, fino a trent’anni fa l’Europa riusciva a soddisfare la propria domanda interna con pesca e allevamento locali fino a settembre o ottobre.
Il pesce è terminato perché, banalmente, ne abbiamo mangiato più di quanto se ne possa pescare o allevare. Si stima che ognuno di noi mangi in media 25 chili di pesce all’anno, quasi il doppio di 50 anni fa. Il consumo di pesce a livello globale, secondo i dati riportati dal Wwf, è aumentato del 3,2 per cento e oltre ottocento milioni di persone continuano a dipendere da questa risorsa per la propria sopravvivenza.
L’Europa è rimasta mediamente “senza” pesce il 9 luglio, l’Italia ha fatto peggio avendo consumato i suoi stock ittici addirittura lo scorso 6 aprile. “In poco più di tre mesi, l’Italia ha consumato l’equivalente dell’intera produzione ittica annuale nazionale e la restante parte dell’anno dipenderà dalle importazioni di pesce, soprattutto dai paesi in via di sviluppo – ha dichiarato Donatella Bianchi, presidente di Wwf Italia. – È nostro dovere gestire gli oceani con più attenzione se vogliamo che il pesce continui a nutrire le generazioni future: oggi assistiamo ad una inversione di paradigma, il settore ittico è in crisi, i pescatori diminuiscono ma non lo sforzo di pesca. Significa che si pesca meno ma peggio”.
Oltre a pescare una mole insostenibile di pesce, un’incredibile quantità di pescato viene sprecata. Circa il 35 per cento degli animali catturati viene gettata, rendendo inutile la loro morte. La prima fase dello spreco avviene immediatamente dopo la cattura, secondo la Fao i grandi pescherecci sono infatti responsabili di circa un quarto dello spreco. I pesci indesiderati, quelli che vengono eufemisticamente definiti “prede accessorie” (ma, come ha scritto Jonathan Safran Foer, “non è davvero per sbaglio perché le prede accessorie sono parte costitutiva dei metodi di pesca contemporanei che generano catture abnormi con quantità di prede accessorie abnormi”), vengono gettati in mare, già morti, perché troppo piccoli o appartengono ad una specie indesiderata. La Fao ha chiesto che parte di questi animali sia almeno utilizzata per produrre farina di pesce, piuttosto che essere semplicemente scartata. Lo spreco principale avviene però nei paesi in via di sviluppo, dove i pesci, semplicemente, marciscono prima che possano raggiungere una fabbrica o un mercato. Questo perché i pescatori locali non hanno le conoscenze o le attrezzature necessarie per conservare il pesce. La Fao sostiene che il 27 per cento del pesce che arriva a terra non viene mai consumato. Per provare a ridurre gli sprechi l’organizzazione dell’Onu ha avviato diverse iniziative, ad esempio collaborando con i pescatori del lago Tanganica, in Burundi, e incoraggiando l’uso di rastrelliere rialzate per l’essiccazione del pesce.
La fauna marina è minacciata dalla pesca eccessiva e dalla pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata, senza considerare i cambiamenti climatici e la terribile catastrofe ambientale rappresentata da plastica e microplastiche. Sebbene ci siano ancora in Europa alcuni paesi autonomi, ovvero, in grado di pescare e produrre quanto consumano internamente, come Croazia, Paesi Bassi, Estonia e Irlanda, la stragrande maggioranza consuma più di quanto sia in grado di pescare e produrre. Per salvare i pesci, e le persone che ne dipendono, prima che sia troppo tardi, occorrono innanzitutto politiche globali che regolamentino in maniera più severa la pesca. Anche i consumatori rivestono però un ruolo importante, per incrementare la consapevolezza sugli impatti sociali e ambientali del consumo di pesce, aiutarli a scegliere pesce sostenibile e ad alleggerire la pressione sugli stock ittici, il Wwf ha lanciato il progetto Fish Forward.
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