Con Raimondo Orsini, direttore della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, abbiamo esplorato i temi chiave degli Stati generali della green economy 2024 il 5 e 6 novembre.
Gloria Majiga-Kamoto, vincitrice del Goldman prize, difende l’ambiente a sud dell’equatore
Gloria Majiga-Kamoto, vincitrice del Goldman prize 2021, è una giovane attivista che lotta per tutelare il Malawi dall’inquinamento e dalla plastica. L’intervista.
Attivista ambientale, responsabile dei programmi del Center for environmental policy and advocacy, in prima linea nella lotta per la preservazione delle risorse, promotrice della campagna per vietare le plastiche monouso nel suo paese e fresca vincitrice del Goldman environmental prize (tra i massimi riconoscimenti nel campo dell’attivismo), Gloria Majiga-Kamoto, volto della lotta ambientale in Malawi, oltre che attenta osservatrice del continente africano, ha accettato di aprire le porte della sua realtà e raccontare il suo percorso a LifeGate.
Nel 2019 il Malawi produceva 75mila tonnellate di plastica ogni anno, di cui l’80 per cento costituito da plastica monouso non riciclabile. Grazie alle proteste di associazioni, attivisti e membri della comunità internazionale, da due anni è attivo uno stop alla vendita del prodotto. Un prodotto infestante per molti paesi del continente che ha ricadute ambientali ed economiche gravissime, con impatti su agricoltura, allevamento e pesca, settori su cui si regge la fragile economia del Malawi.
Gloria Majiga-Kamoto è uno dei volti che ha combattuto per questo risultato. Il 15 giugno, insieme ad altri cinque attivisti e attiviste da tutto il mondo, è stata insignita ufficialmente del Goldman environmental prize. Un premio che riconosce gli individui per gli sforzi sostenuti nel proteggere l’ambiente e migliorare le condizioni di vita della propria comunità.
Cominciamo con qualcosa del suo percorso: ha oltre cinque anni di esperienza, lavora per un think tank di politica ambientale locale e a soli trent’anni ha ricevuto il Goldman environmental prize. Come è arrivata a questo punto? Perché, e come, è stata coinvolta nella lotta per la preservazione dell’ambiente?
Innanzitutto, mi sono appassionata ad attività che mirassero alla difesa della persona. Dell’essere umano. E il settore ambientale, oltre ad essere gestito con politiche obsolete nel mio paese, ha questa forte connessione con la difesa delle persone. Si è sviluppata così una vera passione nel coinvolgere il pubblico nella tutela dell’ambiente. Oggi mi occupo di numerosi settori, tra cui la cooperazione con le governance locali per sensibilizzare e attuare politiche efficaci sulla preservazione del territorio, promuovendo così pratiche legate alla silvicoltura, ovvero un insieme di attività che consentono il controllo della qualità di una foresta, in modo da garantire la produzione lasciando però invariato nel tempo il patrimonio forestale. E tutto questo è fatto per essere parte del cambiamento necessario per fermare la crisi climatica.
Uno dei suoi compiti è quindi facilitare un dialogo tra cittadini e autorità per migliorare le politiche legate a risorse naturali e sviluppo sostenibile. Ma come si trova questo collegamento quando l’ambiente circostante è meno sensibile a tematiche di questo tipo?
Come si fa a migliorare la convivenza tra persone e responsabili politici? Partiamo dal presupposto che anche le autorità sono in primis dei cittadini. Anche loro vengono colpiti dai problemi ambientali. Si cerca quindi di trovare un terreno comune. Ovvero: tutti apparteniamo a questo paese. Il mio ruolo è creare la piattaforma che consente ai responsabili politici di mischiarsi con le comunità di cui fanno parte, in modo da facilitare dialogo e promuovere decisioni più aperte e sensibili. Il punto è che siamo tutti esseri umani e vogliamo creare un ambiente e una società vantaggiosa per ognuno.
Una delle sue lotte più significative è legata alla plastica e al suo utilizzo in Malawi. Ci può spiegare in concreto qual è la situazione nel paese?
Se tu facessi una breve passeggiata per una delle tante città del paese, ti accorgeresti immediatamente del problema. Vedresti tantissime piccole buste di plastica blu. Quelle monouso, da supermercato. La situazione è visibilmente brutta e difficile. E questo vale sia per le aree urbane sia per quelle rurali. Il Malawi ha essenzialmente un’economia agro-cetrica e i vari tipi di inquinamenti del suolo colpiscono sia l’agricoltura che l’allevamento. Quindi, a cascata, le conseguenze si risentono sull’intera economia. Tutto ciò senza contare l’enorme danno arrecato alla fauna selvatica, oppure ai fiumi e ai laghi, e quindi all’approvvigionamento idrico.
La plastica è un problema enorme non solo per il Malawi, ma anche per l’intero continente e l’intero Pianeta. Soprattutto perché l’economia della plastica genera occupazione per molti, e in più costa meno di altri materiali. Come si esce da questo impasse?
Il settore crea posti di lavoro ed è economico. Auricolari, telefoni e migliaia di altri prodotti importanti vengono realizzati in plastica. Dobbiamo però trovare un equilibrio tra l’impatto della plastica e il modo in cui stiamo producendo. Il punto è che sono sbagliati i modelli di consumo, ad oggi insostenibili. Dobbiamo far sì che qualsiasi cosa venga prodotta sia gestita in modo sostenibile e non divenga un problema per le comunità del futuro. Dobbiamo cambiare il valore che diamo alla plastica, facendo sì che il riciclaggio divenga qualcosa in cui la comunità si sente coinvolta. Coloro che riciclano i rifiuti creano opportunità per l’upcycling, ovvero il meccanismo grazie al quale ai vecchi prodotti viene dato un valore maggiore rispetto alla produzione iniziale, ma, ad oggi, il Malawi non ha ancora un ottimo sistema di gestione dei rifiuti.
L’attivismo ambientale in Africa ci racconta la storia di grandi donne coinvolte nella lotta. Il premio Nobel Wangari Maathai ne è un chiaro esempio. Pensa che ci siano collegamenti tra la battaglia per l’uguaglianza di genere e quella ambientale?
Ci sono molte donne che mi hanno ispirato, lei è assolutamente una di loro. Il problema è che nei ruoli decisionali, nei grandi uffici e alle grandi riunioni, ci sono pochissime donne sedute al tavolo. Ma in realtà siamo noi il genere maggiormente esposto alla crisi climatica. Sono le donne che attingono acqua dai fiumi per dissetare la famiglia, oppure che raccolgono la legna da ardere per sfamare il nucleo familiare. Siamo noi quelle più a contatto con la natura. Ed è per questo che dobbiamo essere parte della conversazione. La nostra voce è importante e fondamentale. Dobbiamo rivendicare il nostro posto.
Nel 2019, 212 attivisti per l’ambiente e la Terra sono stati uccisi a causa delle loro idee e del loro ruolo. Questi omicidi sono principalmente avvenuti in Sudamerica, Asia e, in misura minore, anche in Africa. È stato il numero più alto di sempre. Ci sono rischi nel lavorare come attivista in Malawi? E in che modo l’attivismo può proteggersi?
Ci sono numerosi rischi legati ai lati oscuri di questo lavoro con cui veniamo a contatto. Ci sono persone con potere e legami politici con cui entriamo inevitabilmente in contrasto. Ci sono autorità con pochissima volontà politica per agire. Ci sono aziende che controllano il settore e raccolgono informazioni su di te. È uno scontro trasversale con un sistema. Fortunatamente, però, ci sono modi per proteggersi. Ho capito che fare network con i partner, unirsi, lavorare insieme e formare un’unica voce, condividendo una causa comune, diventa una rete di difesa difficile da spezzare. Non sei sola quando hai una comunità al tuo fianco.
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