Guerino Delfino, LifeGate. I brand non possono più solo raccontare, devono agire

Tra gli advisor di LifeGate Way c’è Guerino Delfino, executive vice president di LifeGate dopo una carriera nella pubblicità. L’abbiamo intervistato.

Nel mondo del digitale e dei new media, Guerino Delfino è considerato un pioniere. Era il 1994 quando ha fondato la sua agenzia di creatività multimediale, poi acquisita da Ogilvy, uno dei maggiori colossi globali della pubblicità. Colosso di cui è stato presidente e amministratore delegato per l’Italia per quattordici anni. Nel 2019 ha deciso di dare una nuova rotta alla sua carriera entrando nel consiglio di amministrazione di LifeGate, di cui ora è executive vice president. L’intuizione, rivelatasi poi azzeccata, era quella di mettere le sue solide competenze di marketing e comunicazione al servizio di quelle aziende intenzionate ad abbracciare il paradigma della sostenibilità.

Le startup innovative da un certo punto di vista sono agevolate, perché partono da zero e hanno di fronte a sé un foglio bianco tutto da scrivere. Sono sempre di più, inoltre, quelle per cui la sostenibilità non è una scoperta fatta lungo il percorso, ma la ragione stessa del proprio operare. È vero anche che le startup – per definizione – sono meno strutturate, si devono scontrare contro giganti ben più consolidati sul mercato e rischiano scivoloni dettati dall’ingenuità. Ecco perché necessitano di strumenti ad hoc, come quelli forniti dall’ecosistema LifeGate Way. Tra gli advisor non poteva mancare proprio Guerino Delfino: l’abbiamo incontrato per una chiacchierata sulla transizione di sistema che le imprese stanno vivendo.

Guerino Delfino
Guerino Delfino, executive vice president di LifeGate © LifeGate

Lavorando ad altissimi livelli nel campo della comunicazione dagli anni Novanta, lei ha visto la sostenibilità passare da tema di nicchia a mainstream. Come ha vissuto questo percorso e cosa si aspetta per il futuro?
La sostenibilità è stata una rivoluzione, come il digitale. Ma con una fondamentale differenza. Al contrario del digitale, che ha cambiato relativamente le logiche del mercato concentrandosi sul go to market, la sostenibilità va al cuore del sistema, di come i prodotti devono essere fatti e venduti. La sostenibilità è un cambiamento radicale dell’atteggiamento verso la vita, i consumi, i prodotti e lo stile di vita nel suo insieme.

Le aziende non sono ancora preparate ad affrontarla dal punto di vista della comunicazione. Perché la sostenibilità ci sta dicendo che il marketing e la comunicazione non possono più avere l’obiettivo di vendere a tutti i costi a più persone possibili, in qualsiasi momento e nelle condizioni più svariate, come hanno fatto finora. Il nuovo mondo ci sta dicendo che dobbiamo produrre meno, consumare meno e usare approcci differenti come quello dell’economia circolare.

Per il suo ruolo in LifeGate e LifeGate Way, lei ha a che fare in continuazione con aziende e startup che si pongono la sfida di rendere più sostenibili i propri prodotti o processi o – nel caso delle startup – nascono con un’idea sostenibile. Quali sono i criteri che lei stesso applica per distinguere i progetti solidi da quelli che vogliono soltanto cavalcare l’onda?
A metà degli anni Duemila l’azienda si è chiesta qual è il suo ruolo nella società e ha elaborato il concetto di purpose. Quasi sempre è un’operazione di marketing e comunicazione: si crea uno storytelling attorno a dei valori che sono territorio d’incontro con il target. Fin qui però è storytelling, bisogna passare allo storydoing. Ma come fa un’azienda a fare la storia? Le basta raccontare al purpose o aderire a movimenti come #metoo o Black lives matter? Secondo me no, anche perché questi movimenti non hanno bisogno delle imprese.

Per come la vedo io, le aziende devono fare solo quello per cui sono nate: offrire a un prezzo equo prodotti e servizi sostenibili che durino nel tempo. È quello che cerco e quello che considero. Mi sta bene che un’azienda mi parli della sua purpose, ma io voglio vedere come fa il prodotto, come tratta il suo personale e la sua filiera, qual è il suo impatto sociale. Io stesso ho costruito racconti per tutta la vita, ma ormai non mi interessa più il racconto, mi interessa l’azione.

La sostenibilità sta ridisegnando il nostro modo di pensare. In passato si diceva che l’importante erano le funzionalità e la performance del prodotto, poi l’attenzione si è spostata sulla cosiddetta purpose, cioè il perché quel prodotto veniva fatto. Oggi ciò che conta è il come, il modo in cui si produce. Io guardo quel “come” e l’impatto che ha, dentro e fuori dall’azienda.

Qual è un atteggiamento giusto e trasparente da parte di una startup sustainable native, cioè che nasce da una vocazione sostenibile?
Una startup sostenibile deve essere in grado di far vedere il cambiamento, piccolo o grande, che porta. È un cambiamento che tende a trasformare, a semplificare o aggiungere? Qual è il suo impatto in prospettiva? È scalabile e, se sì, cosa succede portandola su larga scala?

Da un lato ci sono startup, cioè imprese profit, che nascono con un’ambizione sostenibile. Da un lato c’è una riflessione più profonda sui limiti del capitalismo e sulla sua insostenibilità. Come convivono queste due dimensioni?
Il capitalismo va ridisegnato. Questo non vuol dire che dobbiamo eliminarlo, nessuno sta mettendo in discussione la proprietà privata. Il discorso è diverso e, badiamo bene, non ha nulla di ideologico: i dati ci dimostrano che il sistema, così com’è stato disegnato finora, non funziona. Il tema in discussione non è il profitto. Il tema è: la creazione di quel profitto avviene a discapito della natura, delle persone, delle filiere? Quando dico di voler vedere l’impatto di un’azienda o di una startup, mi riferisco proprio a questo.

Finora tutto si è basato sul capitalismo degli shareholder, in cui gli interessi degli azionisti sono al centro e sono tutelati anche dalla legge. Oggi bisogna passare al capitalismo degli stakeholder in cui tutti gli interlocutori, compresi i lavoratori e gli altri anelli della filiera, devono ricavare un beneficio. Questo cambio di paradigma è fondamentale.

Ridisegnare il capitalismo significa staccarsi da alcuni dogmi. Il dogma per cui la crescita illimitata e infinita è segno di progresso, quello per cui c’è una mano invisibile che governa il mercato e, infine, quello per cui la tecnologia in un modo o nell’altro può sempre risolvere tutto. Il sistema economico basato su queste convinzioni ha portato alla situazione attuale: un consumo esasperato di materie prime, un aumento esponenziale della CO2 in atmosfera, una macchina che ha bisogno del consumismo per rimanere in piedi, disuguaglianze allucinanti che spaccano in due la società. Così non possiamo andare avanti. Non lo dicono le ideologie, lo dicono i dati.

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