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I combustibili fossili continuano a essere sovvenzionati dallo stato con sussidi per quasi 20 miliardi di euro l’anno. La manovra finanziaria ne vale 32. Perché?
Quanto spende l’Italia per i sussidi ai combustibili fossili? Se lo è chiesto, tra gli altri, anche il deputato Alberto Zolezzi che, in un suo post apparso sul blog del Movimento 5 stelle, arriva a parlare di una cifra intorno ai 16 miliardi di euro l’anno. Il sito di fact checking Pagella politica ha controllato questa cifra per constatarne la veridicità ed è giunto alla conclusione che, se si considera l’intero comparto dei sussidi dannosi per l’ambiente, il totale è ancora più alto: 19 miliardi di euro.
Partiamo dalle definizioni. I sussidi sono delle misure incentivanti che servono per mantenere i prezzi per i consumatori al di sotto dei livelli di mercato. O al di sopra se la misura è rivolta ai produttori. Si tratta quindi di vantaggi economici e ne esistono di diverso tipo: energetici, agricoli e molti altri. Il ministero dell’Ambiente distingue i sussidi ambientalmente dannosi (Sad) dai sussidi ambientalmente favorevoli (Saf). La distinzione tra i due tipi di sussidi è presente dal 2015, dopo l’istituzione di un vero e proprio catalogo dei sussidi ambientali. Il ministero si impegna a rivederlo tutti gli anni: l’ultima versione risale al 2018 e i dati fanno riferimento all’anno precedente.
Leggendo il catalogo, i Sad equivalgono a quelle misure che “aumentano i livelli di produzione tramite il maggior utilizzo della risorsa naturale con un conseguente aumento del livello dei rifiuti, dell’inquinamento e dello sfruttamento della risorsa naturale, o ancora le misure di sostegno alla produzione che aumentano lo sfruttamento delle risorse e danneggiano la biodiversità”. Ne sono un esempio le esenzioni dalle accise sui carburanti per il trasporto aereo o navale.
Ma la maggior parte dei Sad rientra nei sussidi indiretti, rappresentati da agevolazioni e riduzioni delle accise, soprattutto nel settore energetico, e in particolare nel settore elettrico, che da solo rappresenta circa il 30 per cento delle emissioni di gas serra italiane. La maggior parte dell’energia elettrica in Italia, infatti, è prodotta da combustibili fossili, proprio grazie al prezzo calmierato a livello statale. Ma il Sad indiretto più importante spetta sicuramente al gasolio, al diesel. Il suo prezzo, infatti, è ridotto rispetto a quello della benzina perché l’accisa è più bassa.
Per contro i Saf hanno l’obiettivo di “salvaguardare l’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse”. Tra questi citiamo il sostegno specifico per alcune varietà di sementi, come pisello, fava e fagiolo, le misure per l’agricoltura biologica e gli investimenti per il miglioramento della redditività delle foreste.
Consultando il catalogo è possibile identificare per il 2017 un totale di Saf pari a 15,2 miliardi di euro l’anno e Sad pari a 19,3 miliardi di euro, di cui 16,3 miliardi di euro sono rappresentati dai combustibili fossili, come petrolio e gas naturale.
Nonostante le promesse fatte a ottobre attraverso l’approvazione del decreto Clima, manca nel concreto un taglio ai sussidi ambientali dannosi. Ragione per cui le Nazioni Unite, attraverso il rapporto Finance fit for Paris, bocciano l’Italia perché non si è ancora allineata agli obiettivi richiesti dall’Accordo di Parigi. Le misure sin qui adottate, in ultimo appunto il decreto Clima, non sono affatto sufficienti per mitigare la CO2 e rispondere in modo chiaro all’emergenza climatica in corso. Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa aveva promesso la riduzione dei Sad, in particolare dei sussidi ai combustibili fossili nella misura di un 10 per cento all’anno a partire dal 2020, ma evidentemente il taglio è stato rimandato.
“La legge di bilancio ne è una prova tangibile visto che dal testo iniziale è scomparso il totale taglio alle esenzioni dal pagamento delle royalties”, spiega Stefano Ciafani, presidente di Legambiente, “sostituito da esenzioni a partire dal 2020 di cui beneficeranno le concessioni sul gas con una produzione annuale fino a 10 milioni di metri cubi standard per quello estratto in mare e 30 milioni per quello estratto sulla terra ferma”. Per il settore petrolifero la limitazione delle esenzioni varrebbe per soli tre anni. A tutto questo si aggiunge la “timida” misura arrivata dall’esecutivo che riguarda l’introduzione del pagamento dell’Imu per le piattaforme petrolifere offshore.
A guadagnarci finora sono state le multinazionali dell’energia fossile. Una ricerca commissionata da Greenpeace, Corporate europe observatory, Food & water europe, Friends of the Earth Europe, rivela che dal 2010 ad oggi le cinque più grandi compagnie ptrolifere del pianeta – stiamo parlando di Bp, Chevron, Exxon Mobil, Shell e Total – hanno speso almeno 251 milioni di euro per fare pressione sull’Unione europea, con l’intento di influenzare le politiche su clima ed energia. Queste multinazionali si avvalgono a Bruxelles di circa 200 lobbisti che, da quando nel 2014 è entrato in carica il presidente Jean-Claude Juncker, hanno partecipato a 327 riunioni di alto livello con i massimi funzionari della Commissione europea. L’equivalente di una riunione a settimana.
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Questo sforzo di lobbying ha portato, nell’ultimo anno, a un utile di 82 miliardi di dollari per i cinque giganti del petrolio e del gas. Le stesse aziende sono state responsabili del 7,4 per cento delle emissioni globali di gas serra tra il 1988 e il 2015. I risultati pubblicati da Greenpeace e dalle altre organizzazioni servono per spiegare quanto sia difficile, nel concreto, tagliare i sussidi e le misure economiche a favore delle grandi industrie che operano nei combustibili fossili. Ma dimostra allo stesso tempo che questo è il settore che più di tutti ha bisogno di essere superato come unica risposta concreta alla crisi climatica che stiamo vivendo.
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