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A un anno dal referendum sulle trivelle, molto è successo ma nulla è cambiato. Questo è il momento per discutere del futuro energetico dell’Italia: le energie rinnovabili. L’editoriale della presidente di Legambiente.
Un anno fa alcuni politici hanno salutato con un #Ciaone piuttosto arrogante la sconfitta di coloro che, Legambiente in prima in fila, si erano battuti per chiedere agli italiani di bocciare la norma che voleva le concessioni delle estrazioni di idrocarburi senza limiti temporali. Una sconfitta si badi bene non di merito, perché la stragrande maggioranza di italiani votò per mettere un limite temporale alle trivelle, ma di quorum che non fu raggiunto, poiché l’affluenza si bloccò su un onorevolissimo 31 per cento.
Prima dicevano quorum. Poi il 40. Poi il 35. Adesso, per loro, l’importante è partecipare #ciaone
— Ernesto Carbone (@ernestocarbone) 17 aprile 2016
Vale la pena ripercorrere quelle pagine di storia di appena un anno fa per capire cosa, nel frattempo, non è successo e come quella vittoria delle lobby del petrolio (le uniche autorizzate ontologicamente a gioire del risultato) abbia sospeso il paese in un limbo surreale e dannoso. Innanzitutto, il quorum. Noi non dimentichiamo la guerra di disinformazione fatta in quei giorni, ad esempio, sui canali televisivi che a pochi giorni dal voto ancora raccontavano agli italiani che si sarebbe votato solo nelle nove regioni che avevano voluto il referendum (senza, ovviamente, citare l’articolo della costituzione che avrebbe potuto permettere una cosa del genere).
Così come non riusciamo a dimenticare l’invito all’astensione da parte dei politici di un po’ tutte le parti, che da solo avrebbe dovuto rappresentare una motivazione seria per esercitarlo quel diritto, coscientemente e con orgoglio.
Per tutta risposta, pochi giorni fa il ministero dello Sviluppo economico (Mise) ha di fatto riaperto le trivellazioni entro le 12 miglia introducendo un meccanismo che consente alle società petrolifere titolari di concessioni di modificare e quindi ampliare il loro programma di sviluppo per recuperare altre riserve esistenti. Via libera, quindi, alle trivelle sotto costa alla faccia di chi ci accusava, proprio nel periodo referendario di un anno fa, di sollevare questioni di lana caprina. Sarà stato per questo che ci incitavano all’astensione?
Un altro fatto che vale la pena sottolineare in occasione dell’anniversario referendario è la vicenda del Tap (Trans adriatic pipeline). Mentre a Melendugno, in provincia di Lecce, si inasprisce il conflitto con la comunità e gli amministratori locali sul punto di approdo di Tap, a Tel Aviv il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda firmava, insieme ai colleghi di Israele, Grecia e Cipro, il primo via libera a Eastmed, il più grande gasdotto sottomarino del mondo (1.300 chilometri offshore e 600 chilometri onshore) che dovrebbe portare nel nostro Paese il gas naturale dei giacimenti di Israele e Cipro, rilanciando l’ipotesi di utilizzo di un secondo gasdotto, il Poseidon, di proprietà di Edison, con approdo a Otranto. Con la firma dell’accordo si concretizza, dunque, sempre più il rischio di avere ben due gasdotti in Puglia, uno a Melendugno e l’altro a Otranto.
Tanto gas ma senza chiarire perché e con quale strategia energetica. Le vicende del Tap o del doppio gasdotto, infatti, non possono essere affrontate in maniera isolata, ma devono rappresentare l’occasione per discutere di come l’Italia possa far fronte agli obiettivi in difesa del clima puntando sulle fonti rinnovabili, ferme al palo da quattro anni, sull’efficienza energetica, e sull’utilizzo del gas solo come fonte fossile di transizione, per arrivare già nei prossimi anni a chiudere progressivamente le vecchie e inquinanti centrali a carbone. Niente di tutto questo all’orizzonte e il fatto che il G7 Energia si sia chiuso, sempre nei giorni scorsi, con nessuna dichiarazione congiunta a causa del diniego della nuova amministrazione americana di Donald Trump, ma soprattutto con un nulla di fatto italiano visto che la tanto annunciata strategia energetica nazionale (Sen) tarda a venire è l’ennesimo segnale che il ministro Calenda questo Paese lo vuole mantenere ben impaludato nell’era dei fossili.
Infine, notizia arrivata il sabato di Pasqua, la regione Basilicata ha sospeso le autorizzazioni per il funzionamento del Centro Olio di Viggiano, in Val d’Agri. Una decisione che tiene finalmente conto della salute dei cittadini ma soprattutto prende atto dell’indisponibilità da parte di Eni di lavorare in maniera trasparente e responsabile. La sospensione, infatti, si fonderebbe sulla mancata adozione da parte della società di misure preventive e di ripristino connesse all’attività, anche in seguito all’ennesimo episodio di sversamento di greggio.
In Italia ad un anno dal referendum molto è successo ma nulla è cambiato: siamo un paese senza una strategia energetica nazionale, dove il lavoro manca, in cui le società petrolifere possono fare e disfare, ma dove soprattutto le rinnovabili sono ferme al palo contrariamente a quanto accade nel resto del mondo.
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