Migranti e profughi in crescita ovunque: le soluzioni ci sono e non sono i muri

Nel 2022 migranti e profughi in tutto il mondo: ma se i muri non possono fermarle, come si gestiscono rispettando i diritti umani?

Le politiche di accoglienza praticate nel 2022 dall’Unione europea che hanno aperto le porte ai rifugiati ucraini in fuga dall’aggressione russa hanno dimostrato che, in quanto uno dei blocchi più ricchi del mondo, l’Europa è più che in grado di ricevere un cospicuo numero di migranti e rifugiati in cerca di protezione e garantire loro l’accesso a servizi essenziali, come salute, istruzione e alloggio.

Tuttavia, l’approccio nettamente differente riservato a migranti e rifugiati che provengono da altri continenti ha messo in evidenza un profondo razzismo e una discriminazione radicata. Sia alle frontiere terrestri che marittime, rifugiati e migranti sono soggetti a rimpatri forzati, sommari e talvolta violenti, a latere delle torture e altre violazioni ricevute in paesi di transito come la Libia. Molti sono lasciati morire.

Sta in queste parole, che fanno da cappello al vastissimo report annuale sui diritti umani nel mondo pubblicato da Amnesty International, quanto avvenuto tragicamente in Europa nel 2022 nella gestione dei fenomeni migratori. Ma allo stesso tempo nelle prime righe vi è forse anche la sintesi di quelle che possono essere le linee da seguire per il futuro: garantire protezione, integrazione, accesso ai servizi per rispondere a un fenomeno che non si fermerà. Troppo profonde sono ormai le cause sociali, economiche, ambientali che lo alimentano per pensare di bloccare migranti e rifugiati con dei muri.

L’Europa ha la capacità di dare protezione, se c’è volontà politica

Nell’ultimo anno il nostro continente ha visto un numero record di persone in movimento. Quelle in fuga dall’invasione russa dell’Ucraina hanno costituito il più grande caso singolo di sfollamento nel continente dalla seconda guerra mondiale, ricorda Amnesty. Il maggior numero di queste persone è stato accolto in Polonia (1,53 milioni), Germania (1,02 milioni) e Repubblica Ceca (468mila). L’Unione europea ha risposto con una solidarietà inedita: ha attivato per la prima volta la direttiva sulla protezione temporanea, fornendo alle persone in fuga dal conflitto in Ucraina un rapido accesso all’alloggio, al mercato del lavoro e all’istruzione. L’accoglienza riservata alle persone in cerca di protezione dalla guerra in Ucraina ha stabilito un nuovo punto di riferimento in Europa e, sottolinea Amnesty, ha dimostrato che gli stati membri dell’Ue hanno la capacità di dare protezione dignitosa a milioni di persone, se c’è la volontà politica di farlo.

Alcuni esempi pratici: nei Paesi Bassi è stata approvata una legge di emergenza statale indirizzata ai comuni, per garantire a 60mila ucraini l’accesso all’alloggio e ad altri servizi. In Svizzera, i rifugiati ucraini hanno ricevuto sostegno in tempi rapidi, anche se i progetti volti a migliorare le condizioni nei centri di asilo sono stati rinviati.

Contemporaneamente però i paesi dell’Ue hanno anche registrato il maggior numero di richieste di asilo dal 2016, da parte di persone provenienti dalle rotte dei Balcani occidentali, del Mediterraneo centrale e orientale: i confini dell’Europa sono rimasti un luogo di esclusione razziale, pericolo e violazioni per molte persone in cerca di protezione, provenienti anche da altre parti del mondo, tra cui Afghanistan, Siria e Africa subsahariana. Provenienti da zone di guerre conclamate, queste persone avrebbero avuto diritto automatico alla protezione, e invece sono finite respinte in modo violento alle frontiere terrestri e marittime. O costrette a fughe pericolose dall’assenza dei tanto sbandierati corridoi umanitari: la tragedia di Cutro è ancora negli occhi di tutti noi. 

A proposito di corridoi umanitari, promessi dalla Ue all’indomani della conquista dell’Afghanistan da parte dei talebani, dopo un primo slancio iniziale i safe passages si sono diluiti. La Danimarca ha iniziato a esaminare i casi di richiedenti asilo afgani respinti e la Germania ha accolto molte persone a rischio, ma il Belgio ha ripreso a rifiutare la protezione internazionale per gli afgani. Amnesty International, poi, ha sottolineato che Grecia, Italia e Turchia hanno perseguitato i difensori dei diritti umani impegnati per i diritti di migranti e rifugiati.

Un tentativo volenteroso l’Europa lo ha fatto a giugno 2022, quando 21 paesi europei hanno concordato un meccanismo volontario di solidarietà per la ricollocazione di 10mila richiedenti asilo dall’Italia e da altri paesi del Mediterraneo: al momento, si è risolto tutto in un nulla di fatto.

Italia, il doppio standard e la legge Bossi-Fini 

Per quanto riguarda l’Italia, poi, Amnesty conferma l’adozione di un doppio standard: oltre 160mila persone in fuga dall’Ucraina hanno chiesto protezione temporanea in Italia, e le autorità hanno dato loro accesso prioritario ai permessi di soggiorno e ai sussidi per il sostentamento. Ma contemporaneamente, le 105.140 persone arrivate irregolarmente via mare sono state considerate “un’emergenza”.

La spiaggia Cutro, teatro del tragico naufragio del 26 febbraio © Simone Santi

Proprio il 27 marzo scorso in Italia c’è stata l’eccezione cosiddetta click day del decreto flussi: gli imprenditori italiani hanno avuto la possibilità di richiedere forza lavoro immigrata tramite un portale dedicato, e i quasi 83mila posti messi a disposizione sono andati esauriti in poche ore. Di eccezione parla Alice Basiglini, portavoce di Baobab Experience, una delle associazioni che in Italia si occupano di accoglienza e integrazione di fatto al posto dello Stato, secondo cui nella “cultura della difesa” che contraddistingue l’occidente, “l’unica libertà di movimento tollerata è per soddisfare l’utilitarismo economico da una parte e l’approccio caritatevole dall’altro. I decreti flussi e la terminologia che li accompagna (clickday, overbooking) non sono altro che il tentativo di acquistare manodopera a basso costo in un Paese dove i diritti dei lavoratori migranti sono quotidianamente calpestati e dove la forza lavoro straniera alimenta l’economica sommersa o semisommersa”.

E anche i corridoi umanitari, “di cui tutti si riempiono la bocca – e che vedono Baobab Experience stessa coinvolta in prima linea – sono numericamente ridicoli per poter avere un valore diverso da quello meramente simbolico”. Rendere possibili le vie cosiddette legali dunque “significa mettere innanzitutto mano a una legge – la Bossi-Fini – che di fatto impedisce l’ingresso regolare e aprire le nostre frontiere agli altri, esattamente come per noi sono aperte quelle degli altri Paesi”.

America: la fuga verso gli Stati Uniti

L’Europa, certo, ma non solo: quelle delle migrazioni è un fenomeno dal quale nessuna regione del mondo è esente. Dalle migrazioni interne dell’Africa (che solo in parte sfociano nei viaggi della speranza verso l’Europa) a quelle del centro e sud America verso gli Stati Uniti, passando per il dramma infinito dei rohingya in Myanmar, l’unica differenza è che la lontananza geografica e culturale fanno approdare raramente queste storie sulla stampa europea. Se non quando accadono tragedie come quelle del centro di detenzione di Ciudad Juarez, al confine tra Messico e Usa, nel cui incendio hanno perso la vita almeno 39 persone. Sono almeno 281.149 le persone che nel 2022 sono state detenute nei sovraffollati centri messicani di detenzione per migranti, e 98.299 le persone espulse, in prevalenza provenienti dall’America Centrale, inclusi migliaia di minori non accompagnati.

Dall’altra parte del confine, le corti federali statunitensi hanno convalidato i protocolli sulla migrazione, (Migration Protection Protocols – Mpp) e il Title 42 del codice di salute pubblica, determinando per Amnesty danni irreparabili a decine di migliaia di richiedenti asilo che sono stati espulsi. E i governi statali hanno mantenuto in piedi un sistema di detenzione arbitraria di massa dei migranti, stanziando nel 2022 fondi per detenere 34mila persone al giorno.

Il numero di persone scappate da Venezuela, Cuba e Haiti è notevolmente aumentato: le mete sono Argentina, Canada, Cile, Colombia, Messico, Perù, Trinidad e Tobago e Stati Uniti, ma la mancanza di solidi sistemi di protezione internazionale ha continuato a lasciare rifugiati e migranti senza tutele.

Panama è un caso particolare: il paese dell’istmo non ha un esercito, ma si è dotato di un forza di frontiera che si occupa di accoglienza dei migranti che giungono al confine sud dalla Colombia, dove aver attraversato la giungla in barca (un viaggio pericolosissimo attraverso il cosiddetto Darién Gap, intrapreso da decine di migliaia di persone all’anno compresi 5mila minori). In Argentina è stata varata una legge che avrebbe permesso ai richiedenti asilo e ai rifugiati un più ampio accesso all’istruzione, al lavoro e all’assistenza sanitaria, ma i decreti attuativi non sono ancora stati emanati.

Africa: le migrazioni interne per guerre e siccità

L’Africa è squassata non solo dalle migrazioni verso l’Europa, ma anche da migrazioni interne, dovute a conflitti e crisi climatica. E in alcuni casi le due cose sono collegate: 600mila sfollati nella Repubblica democratica del Congo, un milione e mezzo in Mozambico, un milione e 800mila in Somalia rappresentano vere crisi umanitarie. L’Uganda è il Paese che ospita la più vasta popolazione di rifugiati dell’Africa, pari a quasi 1,5 milioni di persone, con quasi 100mila nuovi arrivi registrati solo nel 2022, ma le autorità di Kampala pur con tutta la buona volontà non sono in grado di rispondere adeguatamente ai bisogni urgenti dei rifugiati, come assistenza medica, acqua, servizi igienici e istruzione. Lo stesso dicasi per il Sudan, che ha continuato a ricevere nuovi rifugiati dai paesi confinanti: 20mila dal Sud Sudan e 60mila dall’Etiopia. Ma a causa della grave carenza di finanziamenti internazionali, il World food programme è stato costretto a tagliare le razioni di cibo distribuite ai rifugiati.

Kampala, Uganda
Kampala, capitale dell’Uganda, paese che ospita 1,5 milioni di sfollati africani © Hassan Omar Wamwayi/Unsplash

Algeria, Tunisia, Guinea Equatoriale hanno effettuato respingimenti di massa. Il caso di Tunisi è emblematico: le partenze verso l’Italia si sono moltiplicate negli ultimi mesi proprio in coincidenza con la crisi economica che ha colpito il paese, e l’avvio di una forte campagna discriminatoria verso i migranti da parte del presidente Kais Saied. Senza contare ovviamente l’ormai incancrenita situazione della Libia, più volte censurata anche dalle Nazioni Unite per le torture, gli abusi, i rapimenti, il traffico di essere umani. Eppure l’Italia continua a finanziare Tripoli attraverso il memorandum d’intesa.

Asia: i profughi palestinesi, siriani, afgani, rohingya

In Medio Oriente le nazioni che ospitano il maggior numero di migranti e rifugiati, come Libano (1,5 milioni di siriani) e Giordania (quasi 3 milioni, di cui 2 milioni di palestinesi) hanno violato i diritti delle persone in cerca di protezione, mentre i donatori internazionali non hanno finanziato adeguatamente i programmi umanitari di risposta alle crisi, secondo il report di Amnesty International. Le autorità hanno continuato ad arrestare e detenere arbitrariamente i rifugiati e i migranti e a sottoporli a refoulement (o più banalmente: repressione) ed espulsioni di massa.

World press photo 2019
Rifugiati afgani in attesa di attraversare il confine con l’Iran © Enayat Asadi/World press photo 2019

In Iran, le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro cittadini afgani che attraversavano il confine tra Iran e Afghanistan e ne hanno arbitrariamente arrestato e torturato altri prima di espellerli illegalmente dal paese. L’Arabia Saudita ha rimpatriato con la forza decine di migliaia di migranti etiopi, dopo averli detenuti in condizioni disumane perché privi di validi documenti di soggiorno, sottoponendoli anche a tortura e altro maltrattamento.

Più a oriente, la difficile situazione dei rifugiati rohingya provenienti da Myanmar è rimasta irrisolta. In Bangladesh si è avuto un certo miglioramento nell’accesso all’istruzione per i bambini rohingya, ma circa 100mila sono rimasti senza istruzione. In Malesia, i rohingya e altri rifugiati di Myanmar sono rimasti detenuti a tempo indeterminato e molti sono morti durante un tentativo di fuga. Ma anche nelle moderne e democratiche Australia e Giappone, come a Hong Kong, migranti e richiedenti asilo sono sono stati trattenuti esclusivamente per motivi di immigrazione.

Rifugiati rohingya in Bangladesh
Rifugiati rohingya in Bangladesh © Allison Joyce/Getty Images

Tre ipotesi di possibili soluzioni 

Tutto è collegato: si scappa da guerre e da dittature legate spesso alla lotta per accaparrarsi risorse sempre più scarse, molto spesso a causa dell’avanzare di desertificazione e quindi malnutrizione. Solamente l’anno scorso, secondo i dati dell’Internal displacement monitoring centre, 17,2 milioni di persone sono state costrette a fuggire a causa fenomeni distruttivi e di rischi meteorologici: enormi movimenti di uomini e donne all’interno del loro stesso paese o in quelli confinanti come molto spesso è capitato in questi anni in Africa e in Sud America. Secondo l’Unhcr sono proprio le regioni in via di sviluppo, che sono tra le più vulnerabili dal punto di vista climatico, “che ospitano l’84 per cento dei rifugiati del mondo. Gli eventi meteorologici estremi e i pericoli in queste regioni che ospitano i rifugiati stanno sconvolgendo la loro vita, esacerbando i loro bisogni umanitari e perfino costringendoli a fuggire di nuovo”.

E poi si fugge da condizioni politiche in alcuni casi dovute proprio all’ingerenza dei paesi di approdo: basti pensare all’Iraq, alla Libia, all’Afghanistan. Con questa ottica, anche la distinzione tra chi scappa da un conflitto e il cosiddetto migrante economico si fa labile, confusa. Ma se è tutto collegato, qual è (se c’è) il filo da tirare per sciogliere questa unica, enorme matassa? È davvero possibile scindere l’approccio emergenziale da quello strutturale del fenomeno migratorio?

1. Cooperazione, ma nel rispetto dei diritti umani

Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, “il dibattito di questi anni è inficiato da una confusione tra tempi lunghi e tempi brevi. Quando si parla di piani economici, del diritto di rimanere – come ripete spesso per esempio la premier italiana Giorgia Meloni, ndr – è evidente che i tempi per realizzare le condizioni per cui nei Paesi di origine ci sia un vantaggio a rimanere piuttosto che la necessità di partire sono lunghi. Che ci sia il dovere di aiutare Stati in difficoltà, è nella logica della cooperazione internazionale, ma non va fatto come spesso capita a danno degli stessi diritti umani, come oggi in Tunisia dove aiutiamo un presidente che ha fatto dichiarazioni xenofobe invitando molti migranti a partire: in questo modo non si fa che riproporre le condizioni per cui le persone fuggono“.

2. Protezione internazionale

Ma soprattutto, i tempi dei piani di ricostruzione “non affrontano l’emergenza. Noi dobbiamo occuparci, tenendo in mente quella prospettiva di lungo periodo, del presente: garantire percorsi legali e sicuri di ingresso, corridoi umanitari”. Il primo tema insomma “è quello di ridare un senso a due parole: protezione internazionale, che oggi non sono due parole che trovano applicazione concreta, ma ostacoli e addirittura collaborazioni nord-sud tra chi non vuole far arrivare e chi è pagato per non far partire, vedi memorandum Italia-Libia, o l’accordo Ue-Turchia, gli accordi tra Usa e Messico“.

3. Libertà di movimento

L’altra grande questione riguarda la libertà di movimento, un diritto sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani ma, quanto pare, valido per ora solamente per il nord del mondo. Lo dice Alice Basiglini di Baobab Experience, quando afferma che “il fatto che il benessere dei Paesi sviluppati è fondato su una enorme espropriazione e il nostro privilegio, basato su una truffa, non può più essere prerogativa del primo mondo”.

Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese. (Art. 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani)

Lo ribadisce Riccardo Noury, quando sottolinea che “il valore di un passaporto dipende da quanti stati lo riconoscono, da questo punto di vista siamo in una discriminazione chiara. E paradossalmente i passaporti che valgono di più sono quelli di persone che non hanno necessità di partire”. Ma permettere a tutti di partire sarebbe una soluzione praticabile? Sì, per il portavoce di Amnesty: “A me interessano i diritti umani – premette – ma se il mio compito fosse valutare l’aspetto economico, direi che sarebbe un vantaggio“, almeno per l’Europa: “siamo un continente che si sta spopolando e se venissero meno gli ostacoli alla frontiere – e i regolamenti sui paesi di primo approdo – le persone si disperderebbero armonicamente in un continente che si sta svuotando”. Del resto, per tornare all’inizio, la crisi ucraina ha dimostrato che l’Europa ha spazi immensi per accogliere.

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