L’occupazione femminile in Italia è ancora troppo bassa rispetto al resto d’Europa. Il dossier pubblicato dalla Camera mostra la situazione allarmante.
Meno pagate, più precarie, meno impegnate nel mercato del lavoro rispetto agli uomini, escluse e responsabili principali del lavoro di cura. È questa la situazione delle donne nel mercato del lavoro italiano.
A dicembre 2023 il Servizio Studi della Camera dei Deputati ha pubblicato un dossier sull’occupazione femminile che fa il punto su dati e strategie a livello nazionale e sovranazionale che riguardano le donne e la loro presenza nel mondo del lavoro. Ciò che emerge dal documento è allarmante.
Secondo quanto rivelato dai dati Eurostat, in Italia, il tasso di occupazione delle donne di età compresa tra i 20 e i 64 anni, al quarto trimestre del 2022, era pari al 55 per cento, mentre la media dell’Unione europea si attesta al 69,3 per cento. Questi valori delineano, prima di tutto, una scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro in Italia, il cui tasso di occupazione risulta essere all’ultimo posto tra gli Stati membri dell’Unione, con poco più di 14 punti percentuali di differenza dalla media europea alla fine del 2022. Il divario è alto anche se si guarda alla popolazione maschile e quella femminile coinvolta nel mondo del lavoro: le donne occupate sono circa 9,5 milioni, mentre gli uomini occupati sono circa tredici milioni.
L'Italia è l'ultima in Europa per l'occupazione femminile, una donna su cinque esce dal mercato del lavoro dopo il parto, secondo un dossier del Servizio studi della Camera. #ANSAhttps://t.co/LRwornMKri
Francesca Bettio, che insegna Economia del lavoro e microeconometria presso l’Università di Siena e ha una lunga lista di pubblicazioni su temi inerenti il mercato del lavoro e le relative politiche prevalentemente in un’ottica di genere, ha spiegato a LifeGate che da una prospettiva di genere “più che il livello assoluto del tasso di disoccupazione femminile, è interessante il confronto con il tasso maschile“. Confronto che è da sempre sfavorevole alle donne.
Alcune delle cause di questa disparità, secondo Bettio, sono antiche quanto la disparità stessa, mentre altre dipendono da fattori più contingenti, “tra quelle più antiche si colloca, ad esempio, la preferenza che da sempre le imprese mostrano per la forza lavoro maschile“. Ma non solo, ci sono anche alcuni elementi che vengono direttamente dalle donne che, in molti casi, sono meno disposte a spostarsi pur di avere un lavoro o meno presenti in maniera continuativa sul mercato del lavoro. Queste e altre cause di fondo si intrecciano con fattori più contingenti che dipendono, invece, dalla legislazione e dalle politiche lavorative. “Secondo gli ultimi dati Inps relativi ai nuovi contratti di lavoro siglati nel 2022” ha spiegato ancora Bettio, “le donne risultavano sotto rappresentate nei contratti a tempo indeterminato, che già sono pochi, e sovrarappresentate in altri tipi di contratto come quelli stagionali, intermittenti, eccetera”. E proprio questa situazione comporta una maggiore probabilità per una donna che un periodo lavorativo finisca e inizi una fase di disoccupazione in attesa del prossimo contratto.
Maria De Paola, che insegna Economia politica presso l’Università della Calabria ed è attualmente dirigente nella Direzione centrale studi e ricerche dell’Inps e che si occupa prevalentemente di economia del lavoro e dell’istruzione, discriminazione di genere e valutazione di politiche pubbliche, ha aggiunto a LifeGate che in Italia, oltre al tasso di disoccupazione, c’è anche un tasso di partecipazione al mercato del lavoro che “è il più basso in Europa”. Quando si parla dipartecipazione al mercato del lavoro si intende la “propensione” al lavoro tra la popolazione, in altre parole, la quota della popolazione che offre i suoi servizi sul mercato del lavoro. Le donne in Italia, quindi, oltre ad essere più disoccupate degli uomini, partecipano meno al mercato del lavoro e sono, di conseguenza, meno attive anche nella ricerca stessa del lavoro. Questo accade non perché le donne abbiano meno voglia di lavorare rispetto agli uomini, ma perché vivono una disparità costante nel mondo del lavoro che le porta, in molti casi, a non cercare un’occupazione.
Ma a rendere la situazione ancora più complicata, secondo De Paola, è che “le donne, anche quando lavorano, lavorano spesso part-time”, misura che riguarda circa il 49 per cento delle donne occupate nel settore privato, contro meno del venti per cento degli uomini. Questa presenza nel mercato del lavoro ha sicuramente favorito l’incremento del tasso di occupazione femminile, “che è cresciuta di circa dieci punti percentuali dal 2010 al 2022”, ma ha fatto sì anche che queste donne, lavorando part-time, “abbiano redditi molto bassi e di conseguenza fuoriescano facilmente dal mercato del lavoro”.
Il lavoro di cura pesa ancora troppo sulle donne
Un alto tasso di disoccupazione, più scarsa partecipazione al mercato del lavoro rispetto agli uomini, carriere più discontinue, maggiore utilizzo di contratti part-time, ma perché le donne hanno questo tipo di rapporto con il mondo del lavoro?
Secondo Maria De Paola il motivo risiede nel fatto che per una donna il rapporto “costo-opportunità” è maggiore rispetto a un uomo, in quanto in Italia sulle donne ricade la maggior parte del lavoro di cura e del lavoro domestico. “Se devo lavorare per un salario basso non lo faccio” ha spiegato De Paola “perché il costo per trovare chi mi sostituisca nel lavoro di cura sarebbe superiore al guadagno apportato dal lavoro”. E questo, unito al fatto che le donne sono più occupate in settori meno remunerativi rispetto agli uomini, porta a una presenza minore delle donne nel mercato del lavoro.
Il dossier del Servizio studi della Camera sull’occupazione femminile in Italia riporta, inoltre, il dato secondo cui una donna su cinque fuoriesce dal mercato del lavoro a seguito della maternità. La decisione di lasciare il lavoro è determinata per oltre la metà di queste donne da esigenze di conciliazione tra lavoro e cura dei figli, mentre per il 19 per cento da considerazioni economiche che collegano la fuoriuscita dal mondo del lavoro a una valutazione di carattere economico e, appunto, di costo-opportunità.
La legge #19giugno 1902 (“legge Carcano”), a tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli, introduce nell’ordinamento italiano il “congedo di maternità” per un mese dopo il parto, senza dare disposizioni sulla retribuzione e la garanzia di conservazione del posto di lavoro. pic.twitter.com/kTsZyzN5IQ
Il quadro tratteggiato sembra quindi riprodurre uno scenario di genitorialità ancora lontano da obiettivi di equità, condivisione e sostenibilità economica e secondo il Rapporto Istat Sdgs 2023 la distribuzione del carico di lavoro per le cure familiari tra uomini e donne non migliora. In Italia, infatti, le donne svolgono cinque ore e cinque minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno al contrario degli uomini che svolgono le stesse mansioni solo per un’ora e 48 minuti, facendosi carico, quindi, del 74 per cento del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura.
A confermare ancora di più il fatto che siano le donne a caricarsi il peso della cura della casa, ma soprattutto dei figli, sono i dati sul congedo parentale. Questi mostrano come, nonostante la legge preveda la possibilità per entrambi i genitori di usufruire di questa opportunità, nel 2021 hanno fatto ricorso a questa misura il 68,6 per cento delle madri e solo il 29,6 per cento dei padri. Ecco che se la cura, l’assistenza dei figli e degli anziani, i lavori domestici, ricadono per lo più sulle donne, conciliare il lavoro non retribuito con uno retribuito (spesso addirittura poco e male) è complicato e questo influenza la presenza delle donne nel mercato del lavoro.
Non solo disoccupazione: il differenziale retributivo
Guardare alla disparità di genere nel mondo del lavoro, però, significa contestualizzare anche il divario retributivo che esiste tra uomini e donne. Secondo il report pubblicato dal Servizio Studi della Camera, per quanto concerne la differenza di retribuzione, il gap retributivo medio, ossia la differenza nella retribuzione oraria lorda tra uomini e donne, è pari al cinque per cento, dato al di sotto della media europea, mentre quello complessivo, ossia la differenza tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini, è pari al 43 per cento, dato che si attesta, invece, al di sopra della media europea di circa sette punti percentuali.
Come ha spiegato Francesca Bettio, però, è importante contestualizzare questi valori per capire qual è la differenza effettiva di salario tra uomini e donne.
Esistono tre modi di misurare le disparità di remunerazione e guadagno fra uomini e donne:
Il primo è il differenziale di paga su base oraria e misura quanto in meno guadagna una donna che lavora le stesse ore di un uomo.
Il secondo, invece, è il differenziale di stipendio, generalmente mensile o annuale, ossia quanto guadagna in meno al mese o all’anno una donna che lavora e che spesso lavora meno ore, o meno giorni, di un uomo.
La terza modalità, invece, è il differenziale di reddito che una donna in età lavorativa porta a casa nel corso di un mese o di un anno rispetto ad un uomo in età lavorativa.
Come riportato nel report della Camera, la prima misura è piuttosto contenuta per l’Italia “in parte perché, rispetto ad altri Paesi europei, in Italia mancano dal mercato del lavoro soprattutto le lavoratrici a bassa istruzione”, ha sottolineato Bettio, e se queste entrassero, con guadagni inevitabilmente bassi, abbasserebbero di conseguenza la media del guadagno orario delle lavoratrici, aumentando la differenza col guadagno orario dei lavoratori maschi. La seconda misura, invece, aggiunge alla differenza di guadagno per ora lavorata la differenza di ore lavorate e quest’ultima è tanto maggiore quanto più diffuso è il part-time al femminile. A questo proposito Maria De Paola ha precisato che nella retribuzione annua il divario è piuttosto grande perché le donne “non solo vengono retribuite di meno a parità di lavoro svolto, ma prestano anche un numero inferiore di giornate lavorative e spesso lavorano part-time”.
Infine, a differenza della prima e della seconda, infine, la terza misurazione comprende tutte le donne e tutti gli uomini potenzialmente in grado di lavorare, e non solo donne e uomini che già lavorano. Questo dato aggiunge perciò una terza differenza, quella dovuta al fatto che molte meno donne lavorano rispetto agli uomini. “Poiché l’Italia è praticamente il fanalino di coda in Europa quanto ad occupazione femminile” ha chiarito ancora Bettio, “il reddito medio da lavoro che una donna italiana porta a casa è del 43 per cento in meno di quello di un maschio medio italiano, uno dei gap più elevati in Europa”.
Le conseguenze della scarsa presenza sul mercato del lavoro
Tutto questo ha inevitabilmente delle conseguenze che influiscono sulle vite delle donne, sulla loro autonomia e individualità. Da un lato la disoccupazione implica una perdita di reddito, come ha spiegato Francesca Bettio. Le donne già hanno redditi più bassi rispetto agli uomini, in più se la disoccupazione dura a lungo può indurre ad accettare condizioni lavorative o di salario che non corrispondono alla propria qualifica o all’impegno richiesto, aumentando ancora di più il divario di genere all’interno del mondo del lavoro.
Ma non solo, come ha chiarito Maria De Paola, le conseguenze di questa situazione sono importanti in termini sì individuali, ma anche sociali e di equità tra uomini e donne. Il quadro delineato dal dossier del Servizio studi della Camera dei deputati mostra una fragilità lavorativa delle donne che, di conseguenza, vivono condizioni economiche peggiori rispetto a quelle degli uomini. Questo ha delle ripercussioni anche a livello identitario, perché “il lavoro non è importante solo perché dà alle donne una stabilità economica, ma anche perché ci permette di avere una fonte di individualità, di autonomia economica ma anche, appunto, identitaria” ha concluso Maria De Paola.
Esistono soluzioni per superare questa situazione?
Infine, il dossier delinea una serie di misure e soluzioni attuate dal governo per incentivare l’occupazione femminile. Tra queste figurano, ad esempio, la previsione di esoneri contributivi in favore dei datori di lavoro che assumono donne, anche in particolari condizioni di svantaggio, la realizzazione di azioni positive finalizzate a promuovere la conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro, attraverso la tutela della maternità, della paternità e l’assistenza a persone con disabilità. Altre misure, invece, riguardano più strettamente il mondo del lavoro, come quelle in tema di smart working e di trasformazione del contratto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.
Secondo De Paola queste soluzioni devono altresì mirare a promuovere un cambiamento culturale. Secondo l’esperta, infatti, “il lavoro part-time o lo smart working possono aiutare le donne a restare occupate e non uscire dal mondo del lavoro”, ma se queste misure sono usate in prevalenza dalle donne, allora continua a esserci una disparità di genere.
È tempo di parlare di politiche di condivisione più che di conciliazione, di ripartizione del lavoro di cura con partner, fratelli e uomini con cui le donne condividono la vita familiare. Finché conciliare la propria vita lavorativa con la vita familiare rimane un problema solo femminile, equità e parità saranno termini che resteranno ancora lontani.
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