
Nonostante il caro energia, l’auto elettrica conviene in caso di ricarica domestica o a bassa potenza. Il quadro cambia alle colonnine fast o ultrafast.
Entro il 2019, le case automobilistiche che operano in Cina dovranno passare dalla vendita di modelli a motore termico all’auto elettrica. Lo stabilisce un decreto governativo.
Con quasi un miliardo e mezzo di abitanti, una superficie di circa 9,6 milioni di chilometri quadrati e un territorio dall’incredibile varietà, in grado di spaziare dal deserto del Gobi alle steppe, dalle foreste subtropicali alle imponenti vette dell’Himalaya, la Cina è, a tutti gli effetti, un altro mondo. Una realtà spesso poco conosciuta, per molti aspetti nebulosa, erroneamente considerata arretrata agli occhi dell’Occidente. Una potenza economica e militare che, oggi, rivendica un ruolo di primo piano nell’elettrificazione della mobilità. Un tempo principale consumatore mondiale di carbone per la produzione d’energia, la Cina ora punta a diventare leader nel mercato delle rinnovabili. Una transizione epocale che promette di avere forti ripercussioni sul mondo dell’auto.
Il nuovo piano quinquennale varato dal governo prevede ingenti investimenti nelle energie rinnovabili, in special modo solare ed eolico. Entro il 2020, il 27 per cento della produzione energetica cinese sarà legata a fonti pulite, mentre il 55 per cento deriverà dall’impiego del carbone. Una transizione senza precedenti. Così come senza precedenti si preannuncia l’elettrificazione della mobilità automobilistica. In soli tre anni, vale a dire dal 2013 al 2016, i punti di ricarica sono passati da zero a oltre 140mila, come rilevato dall’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), mentre le auto a batteria sono cresciute da poco più di 15mila a quasi 260mila, conquistando una quota di mercato pari all’uno per cento. Mentre il resto del mondo ha “soltanto” quadruplicato la diffusione delle vetture a zero emissioni, la Cina cresce in doppia cifra e si appresta a moltiplicare per trenta i numeri del 2013.
La Cina vira verso l’elettrico. È un dato di fatto. Una transizione che, al momento, gioca a beneficio soprattutto dell’industria nazionale. Secondo uno studio condotto dall’americana Alix Partners, specializzata in ricerche e consulenze societarie, delle 260mila auto elettriche (intese come veicoli sia ibridi plug-in sia alimentati esclusivamente mediante accumulatori) vendute, il 44 per cento appartiene a costruttori cinesi. Per un confronto, il mercato globale, che include anche i veicoli tradizionali a motore termico, vede i brand orientali conquistare non più del sei per cento. Considerando che imbattersi in un’auto elettrica cinese in Europa o negli Stati Uniti è probabile quanto scivolare su di una distesa di quadrifogli, appare evidente come sia la domanda interna ad alimentare questo fenomeno. In attesa di un ulteriore, netto, cambio di passo.
Il governo cinese ha imposto l’obbligo, per le case automobilistiche che producono o importano più di 30mila vetture l’anno, di passare progressivamente dalla vendita di modelli a benzina e Diesel alla commercializzazione di vetture elettriche e ibride plug-in. Un’imposizione prevista a partire dal 2019, dopo essere stata rimandata di un anno rispetto all’originale tabella di marcia. Il programma governativo nasce da una duplice esigenza: da un lato abbattere i livelli di inquinamento, a dir poco fuori controllo nelle principali metropoli, dall’altro alimentare ulteriormente un mercato in vertiginosa crescita. Al punto che, entro il 2025, si prevede che gli esemplari a zero emissioni siano il 20 per cento dell’intero parco circolante di nuova immatricolazione. Dati che fanno impallidire persino l’ecologica California, pur senza eguagliare il record norvegese del 42 per cento. Nel confronto tra il Paese nordico e la Cina, però, il rapporto tra i volumi è simile alla sfida tra una mosca e un elefante.
In Cina, ad oggi, circolano circa 200 milioni di veicoli a motore endotermico. Tanti, troppi secondo il governo. La volontà di ridurre lo smog, e contenere le importazioni di petrolio, ha indotto l’autorità centrale a finanziare costruttori quali Geely, attuale proprietaria degli storici marchi europei Volvo e Lotus, Byd Auto e Beijing Electric Vehicle. Brand pressoché sconosciuti in Occidente. Un fenomeno che da una parte apre la porta a joint venture con i costruttori europei e americani – la Ford, ad esempio, ha siglato un’intesa con la società Anhui Zotye Automobile, mentre la Volkswagen collabora con la Jac Motors – dall’altra lascia emergere un sospetto. Ovvero che l’industria automobilistica cinese, non riuscendo a competere sia tecnicamente sia a livello di design con quella occidentale e nippo-coreana, abbia puntato sul passaggio al motore elettrico per annullare parte del gap, spostando la competizione soprattutto nel campo delle batterie. Accumulatori per la cui costruzione sono necessarie materie prime quali il litio, il nichel e il cobalto. Di cui la Cina, complice lo “shopping” condotto in Australia, Filippine e Congo, è uno dei principali produttori.
Il recente Salone dell’auto di Francoforte ha mostrato, sebbene in modo defilato rispetto alle luci della ribalta, il potenziale cinese in ambito elettrico. Brand quali Chery e Wey – divisione di lusso della più nota Great Wall – hanno abbandonato le linee futuristiche, e a dire il vero sgraziate, del passato, in favore di un design in linea con i gusti europei, proponendo Suv e berline a batteria di alto livello. Dal canto proprio, i marchi più blasonati hanno sì risposto, ma attraverso delle concept più che con dei modelli pronti alla produzione. La sfida, in ogni caso, è lanciata. Dal 2020, quando arriveranno sul mercato le nuove gamme di veicoli a zero emissioni proposte dai brand occidentali, ad esempio Volkswagen e Mercedes-Benz, il mondo dell’auto vivrà un’epocale transizione verso la mobilità elettrica. Nessun dorma.
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