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Situazione siccità sempre più grave: l’unica buona notizia è che le falde acquifere sono state poco intaccate, ma servono investimenti.
Eliminare gli allevamenti e ripristinare le aree ora dedicate al bestiame e al mangime permetterebbe di ridurre le emissioni di CO2 del 68 per cento.
Ridurre del 68 per cento le emissioni di gas serra entro la fine del secolo è possibile. Basterebbe eliminare gli allevamenti e permettere alle aree che ora sono destinate alla coltivazione dei mangimi e al pascolo degli animali di riprendersi. È la conclusione di un nuovo studio a firma di Michael B. Eisen e Patrick O. Brown pubblicato sulla rivista scientifica Plos climate.
“Di solito le stime sui benefici per l’ambiente derivanti dall’eliminazione degli allevamenti si focalizzano solo su un aspetto per volta [come le emissioni di CO2, quelle di metano (N2O) o quelle di ossido di diazoto (CH4), ndr], quindi il potenziale di un cambiamento più radicale rimane sottostimato”, dichiarano gli autori dello studio. “In questa ricerca invece abbiamo quantificato il potenziale completo, unendo gli effetti a lungo termine della riduzione delle emissioni al recupero della biomassa dei terreni”.
Gli scenari ipotizzati sono essenzialmente tre:
Il risultato, eliminando il settore zootecnico, è “una riduzione di 25 gigatonnellate di emissioni di CO2 di origine antropica ogni anno, ovvero la metà della riduzione delle emissioni nette che abbiamo bisogno per limitare il riscaldamento a 2 gradi”.
La sua completa eliminazione, inoltre, fermerebbe l’aumento di gas serra in atmosfera per i prossimi 30 anni. Entro la fine del secolo, le emissioni nette verrebbero così ridotte di 1.350 gigatonnellate di CO2. “Per fare un paragone, le emissioni totali di CO2 di origine antropica dall’industrializzazione a oggi sono pari a 1.650 giga tonnellate”, spiegano Eisen e Brown.
Per essere davvero efficace, l’eliminazione degli allevamenti dovrebbe andare di pari passo con il ripristino della vegetazione nativa sulle aree ora destinate al pascolo degli animali e alla coltivazione dei loro mangimi, che occupano il 30 per cento della superficie terrestre. “L’impatto sarà maggiore nel periodo tra il 2030 e il 2060, quando il recupero della biomassa [in queste zone, ndr.] raggiungerà il suo picco, rallentando l’aumento dei livelli di CO2 nell’atmosfera”, affermano.
Così facendo si assisterebbe a una riduzione del 68 per cento delle emissioni di CO2 entro il 2100, nonché un abbassamento esponenziale dei livelli di N2O e di CH4.
Lo studio poi scende più nei particolari, ipotizzando diversi scenari di eliminazione graduale di vari elementi, come ad esempio il consumo di carne dei ruminanti (quindi bovini, pecore e capre). Questo perché anche se forniscono meno del 19 per cento delle proteine, questo gruppo di animali è responsabile del 90 per cento delle emissioni di tutto il bestiame.
“Eliminare il consumo di un chilo di carne di manzo equivale a una riduzione delle emissioni di 297 chili di CO2. Il 38 per cento di questo valore deriva dalla riduzione delle emissioni e il 62 per cento deriva dal ripristino della biomassa”, proseguono. “Un chilo di carne di manzo, per esempio, ha lo stesso impatto sulle emissioni che avrebbe percorrere 1.172 chilometri in macchina”, concludono i ricercatori.
Sono gli stessi ricercatori ad ammettere che lo studio presenta comunque dei limiti. Ad esempio, non vengono prese in considerazione le ripercussioni economiche e sociali che potrebbero nascere da una transizione mondiale verso una dieta vegetale. “Probabilmente servirebbero degli investimenti per garantire un’entrata alle persone che ora lavorano nel settore zootecnico […]. E ne servirebbero altri anche per garantire la sicurezza alimentare nelle zone dove l’accesso al cibo vegetale è più difficile”, scrivono Eisen e Brown. “Ma in entrambi i casi, questi investimenti andrebbero paragonati alle conseguenze economiche e umanitarie provocate dal riscaldamento globale”.
Bisogna poi precisare che Patrick O. Brown, oltre a essere un professore emerito all’università americana di Stanford, è anche l’amministratore delegato di Impossible foods, un’azienda che produce alternative vegetali alla carne. Michael Eisen, invece, è un consulente per la stessa compagnia, quindi entrambi hanno degli interessi anche economici in gioco.
Da un punto di vista scientifico, comunque, lo studio ha passato la peer review, ovvero la revisione critica di altri esperti del settore.
Entro il 2050, concludono i ricercatori, si stima che la domanda globale di prodotti di origine animali crescerà del 70 per cento. “Se tutta la popolazione mondiale iniziasse a mangiare come nei paesi industrializzati, sarebbero necessari 35 milioni di chilometri quadrati per supportare le necessità di tutto il bestiame, un’area equivalente a quella di Africa e Australia, sommate”, sottolineano Eisen e Brown.
Anche nel caso di una riduzione delle emissioni provenienti da altre fonti, diminuire quelle che derivano dal settore zootecnico è fondamentale se si vuole limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi. “È sconvolgente sentire che un cambiamento nella produzione alimentare e nei nostri consumi non sia in cima alle strategie contro la crisi climatica”, denunciano i ricercatori. è il caso ad esempio del metano: il settore zootecnico è oggi responsabile del 40 per cento delle emissioni mondiali di N2O, ma nelle trattative internazionali manca ancora una menzione al loro ruolo. Ad esempio, durante la Cop26, la ventiseiesima conferenza sul clima delle Nazioni Unite, più di 100 paesi hanno sottoscritto il Global methane pledge, un patto volto a ridurre del 30 per cento le emissioni di metano entro il 2030. Ma non è stata fatta alcuna menzione del settore zootecnico.
Per questo i ricercatori precisano che nessuna azione per il clima può essere davvero efficace se implementata da sola: la transizione dalle fonti fossili, il passaggio alle fonti rinnovabili e l’eliminazione degli allevamenti devono essere affrontati contemporaneamente. Concentrarsi solo su uno di questi tre aspetti non sarà sufficiente per vincere la sfida del secolo.
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