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Perché l’Italia è un hotspot della crisi climatica. Perché l’agricoltura ne è sia vittima che carnefice. Perché la soluzione è adattarci. Di tutto questo parliamo con Stefano Liberti, autore di Terra bruciata.
Come la crisi ambientale sta cambiando l’Italia e la nostra vita. È questo il sottotitolo scelto dal giornalista e scrittore Stefano Liberti per il suo ultimo lavoro Terra bruciata. Un viaggio da nord a sud, dai ghiacciai alpini alle coste siciliane, per capire e spiegare gli effetti che il riscaldamento globale e la conseguente crisi climatica stanno provocando al nostro stile di vita, alla nostra salute e a quella del territorio che abitiamo. Abbiamo intervistato Stefano Liberti per raccontarci questo viaggio fatto di sfide.
“Sono partito da un’ipotesi, che spesso è affascinante, netta, nitida, radicale. Poi quando si va sul campo, spesso questa ipotesi si fa più sfumata – ha fatto notare il giornalista Stefano Liberti –, invece in questo caso specifico è successo il contrario. Sono partito da un’ipotesi meno radicale, pensavo che l’Italia fosse toccata dalla crisi climatica come il resto del mondo, poi incontrando scienziati e persone che fanno il proprio lavoro come gli agricoltori, i pescatori, i pastori ho capito che l’Italia era particolarmente colpita. Il nostro paese è un hotspot della crisi climatica, cioè un luogo dove gli effetti sono più gravi che altrove”.
Una situazione causata, secondo Liberti, da diversi fattori. Perché l’Italia registra una quantità molto elevata di eventi meteorologici estremi in virtù della sua esposizione geografica, in quanto al centro del mar Mediterraneo che si sta scaldando più velocemente di altri mari e degli oceani. Perché morfologicamente l’Italia è un paese fragile, fatto di montagne e colline che rischiano di franare per via di questi eventi. E ultimo, ma non in ordine di importanza, per via dello sfruttamento e del consumo di suolo che rendono i territori più vulnerabili, impermeabili e coperti dal cemento.
L’agricoltura, in tutto ciò, è sia vittima che carnefice. Nell’intervista abbiamo ripercorso come il rischio di desertificazione e abbandono delle campagne italiane sia altissimo se non si prendono le giuste misure di adattamento. Un caso emblematico è quello della Sicilia. Perché se è vero che l’isola al centro del Mediterraneo rischia tantissimo, dall’altro lato esistono già moltissimi esempi di “adattamento creativo”, li definisce Liberti: “Alcune persone hanno accettato l’aumento della temperatura e hanno cercato di adattarsi. Molte realtà hanno cominciato a coltivare con successo frutta esotica, tropicale, come avocado, banane, manghi o litchi”. Per due ragioni: “Da una parte la temperatura in Sicilia non va mai – o meglio non va più – sotto zero, dall’altra perché queste nuove piante, in quanto esotiche, vengono risparmiate dagli insetti e dai parassiti perché non le conoscono, quindi non le attaccano, per usare le parole di un agricoltore locale”.
Questo è solo un piccolo esempio che però è rappresentativo della necessità di adattamento, ovvero far sì che il territorio e il suolo diventino meno vulnerabili attraverso un percorso fatto di resilienza, un termine ormai noto e che identifica la capacità di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Al contempo, se noi ci dimostriamo in grado di saper gestire una crisi che è già qui, pur nella drammaticità del momento, saremo anche in grado di cogliere le nuove opportunità per cambiare il nostro modello di sviluppo, la nostra produzione agricola, industriale, il modo di vivere terreni e territori. Perché ciò che fa bene all’ambiente e alla Terra, fa bene alle persone.
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