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Sei storie di coraggio e dedizione, sei esempi da seguire. Sono i vincitori del Goldman environmental prize 2020, il “Nobel per l’Ambiente”.
C’è la leader indigena che finisce nella classifica delle 100 persone più influenti redatte dal Time. C’è l’apicoltrice maya che sconfigge in tribunale una potenza dell’agroindustria. C’è l’attivista che, a poco più di trent’anni, fa cambiare idea alle banche più ricche d’Europa. Quando alla base c’è una ferrea volontà di difendere il nostro Pianeta, non c’è limite che tenga. È l’insegnamento che possiamo trarre dai Goldman environmental prize, i “Nobel per l’ambiente”. Scopriamo chi sono i vincitori dell’edizione 2020 e perché meritano la nostra gratitudine.
Da un lato Leydy Pech, apicultrice maya nata e cresciuta nello stato messicano del Campeche, membro di una cooperativa agricola composta soltanto da donne indigene. Dall’altro lato Monsanto, la multinazionale degli ogm e dei pesticidi acquisita dal colosso farmaceutico Bayer. Sarebbe difficile trovare una trasposizione più fedele della parabola di Davide contro Golia. Anche in questo caso, la disfida ha avuto un esito che in pochi sarebbero riusciti a prevedere.
Sono passati vent’anni da quando Monsanto ha iniziato a coltivare in Messico soia geneticamente modificata e resistente all’erbicida Roundup, il cui principio attivo è il contestatissimo glifosato. Nel 2012 il governo le ha fornito i permessi anche per il Campeche e lo Yucatán, senza però confrontarsi con le comunità locali. Di fronte alle minacce che incombevano sull’apicoltura, sull’ambiente e sulla salute dei suoi concittadini, Leydy Pech non è rimasta ferma con le mani in mano. Ha creato la coalizione Sin Transgenicos, ha coinvolto l’università in una serie di studi scientifici sui rischi connessi agli ogm e al glifosato, e ha trascinato in tribunale il governo messicano. La corte suprema le ha dato ragione, decretando che gli indigeni meritano di essere consultati su questioni così vitali per il loro territorio. A settembre 2017 Monsanto si è vista ufficialmente revocare le autorizzazioni.
Mentre lavorava presso un acquario alle Bahamas, Kristal Ambrose ha passato due giorni a cercare di liberare una tartaruga marina dalla plastica. A ventidue anni si è unita a una spedizione per studiare la cosiddetta isola di plastica del Pacifico, restando sconcertata nello scoprire che i detriti non erano altro che gli oggetti che lei stessa era abituata a usare in casa: sacchetti, polistirolo, posate in plastica, cannucce.
Forte di questa presa di coscienza, nel 2013 ha fondato l’organizzazione no profit Bahamas plastic movement. Da allora si è dedicata a una fitta opera di divulgazione rivolta soprattutto ai giovani; dai campi di volontariato in cui hanno monitorato i rifiuti sulle spiagge e le microplastiche sulla superficie del mare, ai progetti di riuso creativo dei rifiuti. Nel mese di gennaio del 2018 Kristal Ambrose e i “suoi” studenti si sono messi in viaggio dall’isola di Eleuthera alla capitale Nassau, dove sono stati ricevuti dal ministro dell’Ambiente. Solo quattro mesi dopo il governo annunciava il divieto alla plastica usa e getta, entrato in vigore a gennaio di quest’anno e accompagnato – a partire da luglio – da multe salate.
Diffusa soprattutto in Myanmar, dove conta circa quattro milioni di abitanti, l’etnia karen ha chiesto l’indipendenza già a partire dal secondo Dopoguerra. Con il cessate il fuoco del 2015, i conflitti armati hanno lasciato il posto a tensioni e schermaglie occasionali con il governo centrale. È karen anche Paul Sein Twa che si è messo all’opera per salvaguardare il bacino del fiume Saluen dalla costruzione di una gigantesca diga.
La formula che ha scovato si chiama parco della pace (anche nota come area protetta transfrontaliera) ed è già stata sperimentata con successo nella Cordillera del Cóndor, tra Ecuador e Perù, nel corridoio di vita selvatica Selous-Niassa, tra Tanzania e Mozambico, o nel Triangolo di smeraldo, dove si toccano i confini di Thailandia, Laos e Cambogia. Tutte zone in cui la tutela della biodiversità e quella del patrimonio culturale vanno a braccetto, favorendo la pace.
Paul Sein Twa ha discusso la sua idea coi rappresentanti di 348 diversi villaggi e l’ha sottoposta a un referendum, in cui il sì ha raccolto il 75 pe cento delle preferenze. Il 18 dicembre del 2018 la sua intuizione è diventata realtà. Il parco della pace di Saluen si estende su oltre cinquemila chilometri quadrati e ospita tigri, pangolini, orsi e decine di altre specie selvatiche. Gestito dalla comunità karen, è un avamposto contro le mire dell’industria.
Nata in Francia, Lucie Pinson ha maturato la sua coscienza ambientalista durante gli studi in Sudafrica. Quando si è unita alla ong Les amis de la terre, ha scelto subito di focalizzare le sue forze sul fronte della finanza. A convincerla, alcuni dati eclatanti. Venti banche internazionali, da sole, erogano il 75 per cento dei finanziamenti all’industria del carbone. E proprio tre istituti transalpini – Bnp Paribas, Crédit Agricole e Société Générale – li hanno foraggiati con 32 miliardi di dollari tra il 2007 e il 2013.
L’azione di Pinson è stata capillare. Campagne mediatiche, relazioni con i giornalisti, stesura di ricerche, conferenze pubbliche, interventi alle assemblee degli azionisti delle grandi banche, lettere indirizzate personalmente ai loro dirigenti. Poco per volta, anche grazie a lei, si è affermato un cambiamento culturale. Nel 2017 nessuna banca francese era più disposta a finanziare nuovi progetti legati al carbone. Ben presto a loro si sono uniti giganti assicurativi del calibro di Axa e Scor.
Risolvere la cronica penuria di energia in Ghana costruendo una centrale termoelettrica da 700 MW e un porto che accogliesse 2 milioni di tonnellate di carbone all’anno in arrivo dal Sudafrica. C’era il via libera del governo, c’erano i capitali cinesi. Sembrava tutto già deciso, ma nessuno sospettava di dover fare i conti con la sezione locale della ong 350.org, guidata da Chibeze “Chi” Ezekiel.
Mentre l’industria cercava di conquistare i favori della popolazione promettendo prosperità e posti di lavoro, gli attivisti raccontavano l’altra faccia della medaglia: le emissioni di mercurio e anidride solforosa, l’impatto sui cambiamenti climatici, le piogge acide, la prospettiva concreta di trovarsi senza acqua potabile. A suon di evidenze scientifiche e testimonianze reali, la comunità locale ha preso posizione in modo sempre più netto e il ministero dell’Ambiente non ha potuto fare a meno di gettare la spugna. Nella strategia energetica per il 2030 le rinnovabili hanno finalmente un ruolo da protagoniste.
La comunità indigena Waorani, che vive nell’Amazzonia ecuadoriana, ha la sua paladina. È Nemonte Nenquimo, co-fondatrice dell’alleanza Ceibo ed eletta presidente dell’organizzazione Conconawep che rappresenta gli indigeni della provincia di Pastaza.
Facendo leva su una grande determinazione, ha inanellato una vittoria ambientale dietro l’altra. Ha sostenuto l’indipendenza economica delle comunità indigene, con l’installazione di pannelli solari e sistemi di raccolta di acqua piovana e il supporto alla micro-imprenditoria femminile. Ha dato vita a una mobilitazione dal basso per la tutela della foresta amazzonica, raccogliendo centinaia di migliaia di firme. E alla fine ha vinto una causa contro il governo dell’Ecuador, salvando oltre 200mila ettari dalle esplorazioni petrolifere.
Ormai Nenquimo è considerata un faro da seguire per chi crede negli stessi principi, anche ben al di là dei confini dell’Ecuador. L’ultima prova in ordine di tempo è arrivata dalla rivista statunitense Time, che l’ha annoverata tra le cento persone più influenti dell’anno.
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