Controcanone è un manuale che comprende autrici e autori volutamente ignorati per secoli nello studio della letteratura.
Francesco Costa. Vi racconto “Una storia americana” che riguarda tutti noi
Il passato di Joe Biden e Kamala Harris può anticiparci come sarà il futuro degli Stati Uniti. Parola di Francesco Costa, autore di “Una storia americana”.
Bisogna guardare al passato, per cercare di prevedere il futuro. È per questo che Una storia americana, l’ultimo libro di Francesco Costa edito da Mondadori, racconta le vicende – private e non – che hanno portato Joe Biden e Kamala Harris ad essere chi sono.
Il nuovo presidente e la nuova vicepresidente degli Stati Uniti, che hanno già attraversato la crisi del 2008, ora si trovano ad affrontarne un’altra, persino più temibile. Hanno di fronte “una nazione da ricostruire”, e la vogliono ricostruire migliore di prima, come ha detto lo stesso Biden. “L’America in questi anni è diventata un posto un po’ tetro, un posto in cui le persone hanno smesso di parlarsi”, racconta Costa, vicedirettore del Post, esperto di politica americana e autore della newsletter Da Costa a Costa. Biden è pronto a riportare la luce, come ha più volte ripetuto. Perché lui non è una persona che alza i toni. È apprezzato per la sua autenticità, per la sua capacità di immedesimarsi negli altri, in chi come lui soffre di balbuzie, in chi come lui ha perso una persona cara. È un leader che vuole unire anziché dividere, che vuole gettare acqua invece di benzina. E la cui storia s’intreccia con quella del suo paese.
Perché ha deciso di raccontare il passato di Joe Biden e Kamala Harris?
Io penso che quando noi parliamo di politica, pensiamo alla politica, prima di un’elezione soprattutto – è una cosa che vale anche per noi italiani –, ci concentriamo moltissimo sui programmi elettorali, su quello che i politici promettono di voler fare, e secondo me è un po’ troppo. Chiaramente i programmi sono importanti, sono il modo con cui i politici ci dicono che paese immaginano e ci segnalano anche quali sono le loro priorità; noi capiamo che valori hanno attraverso i loro programmi elettorali. Che però, naturalmente, sono degli strumenti molto imperfetti perché il programma di Trump non parlava di come gestire una pandemia, il programma dei partiti che sostengono il governo italiano non parlava di come gestire una pandemia, nel senso che poi la realtà è imprevedibile.
L’altra cosa importante è che questi programmi possono essere più o meno realizzati in base a delle caratteristiche molto personali dei leader politici, cioè: come si fa poi a realizzare quello che hai promesso? Serve saper condurre una trattativa, serve saper trattare con persone che la pensano diversamente da te, e allora per questo dico che è importante guardare al passato, perché è importante capire chi sono queste persone anche sul piano delle loro qualità personali, come reagiscono quando sono messe sotto pressione, come reagiscono quando qualcuno le attacca, quali sono gli errori che hanno commesso più volte in passato, da quali di questi hanno imparato qualcosa e quali invece tendono a ripetere: tutte queste cose nei programmi elettorali non ci sono scritte, però sono fondamentali per capire che tipo di politici abbiamo davanti.
Nel caso di Joe Biden e Kamala Harris parliamo di due politici che hanno avuto, prima di diventare presidente e vicepresidente, una carriera molto importante e molto lunga – quella di Biden 50 anni – per cui è chiaro che non possiamo prevedere il futuro, non possiamo sapere cosa accadrà, ma se vogliamo farci un’idea di che presidente e vicepresidente saranno Joe Biden e Kamala Harris la cosa migliore da fare è capire che cosa hanno fatto fin qui, come si sono comportati fin qui, cosa hanno sbagliato; e ci sono anche alcune vicende nelle loro carriere che parlano molto proprio al momento attuale degli Stati Uniti. Faccio due esempi brevissimi: quando Biden diventò vicepresidente nel 2009, gli Stati Uniti erano anche allora in una grossa crisi economica, e Biden fu incaricato da Obama di amministrare e spendere i soldi stanziati dal Congresso per far ripartire l’economia. Oggi Biden diventa vicepresidente e si trova nella stessa situazione, cioè un paese che è in una grande crisi economica e un’economia da far ripartire con dei soldi che stanzierà il Congresso, e cosa Biden fece bene e fece male quella volta è utile per capire che cosa farà stavolta: magari ha imparato da qualche errore, magari ripeterà qualche errore del passato. Kamala Harris è stata capo della giustizia in California, è stata procuratrice generale della California, la prima donna nera a ricoprire questo incarico. Veniamo da un’estate di forti proteste proprio per come il sistema della giustizia penale in America sia squilibrato a svantaggio degli afroamericani: capire cosa fece lei quando era procuratrice generale in California può insegnarci delle cose su quale sarà il suo ruolo adesso che, alla Casa Bianca con Biden, dovrà anche mettere mano – lo hanno promesso, vedremo – al sistema penale americano.
Che cosa rappresenta l’illustrazione sulla copertina del suo libro?
Dunque, ovviamente si parte dal libro. È un libro che ha più strati. Non è una classica biografia di Biden e Harris: ho scelto di raccontare alcuni momenti, alcuni episodi delle loro vite, che secondo me sono esemplari di quello che sono, o di quello che erano, per farceli conoscere davvero. Accanto a questi episodi delle loro vite – a volte anche molto personali, a volte invece della vita politica – io ho cercato di raccontare il contesto intorno a loro e cioè cos’era l’America in quegli anni, e quindi si parla anche della criminalità in America negli anni Novanta, si parla del sistema sanitario, della crisi del 2008-2009, e quindi cerco anche di spiegare certi fatti che diamo molto per scontati ma che non sempre conosciamo davvero; e poi c’è un altro strato che è come tutto questo possa farci capire delle cose su quello che faranno e saranno Biden e Harris.
Al momento di scegliere la copertina, non è stato facile trovare un’illustrazione che potesse sintetizzare tutto questo, e con Mondadori ci siamo rivolti a un bravissimo illustratore italiano che si chiama Joey Guidone, che aveva già illustrato la copertina del mio primo libro, ma quella non era un’illustrazione inedita, lui l’aveva fatta per una rivista scientifica americana di qualche anno fa e c’era piaciuta. Stavolta gli abbiamo chiesto di realizzarne una apposta per questo libro, raccontandoglielo, e siccome lui è molto bravo ha tirato fuori questa illustrazione che secondo me è molto bella, che mostra l’America, un paesaggio della classica metropoli americana sotto, e Biden e Harris su una mongolfiera che viaggiano e portano l’America verso un nuovo orizzonte. La mongolfiera a me è piaciuta tantissimo, un po’ perché rompe il solito cliché dei viaggi americani che, per carità, io ne ho fatti tanti – la macchina, la nave con cui si arrivava in America – ma anche perché l’America in questi anni è stata un posto un po’ tetro, un posto in cui la dialettica politica si è molto incattivita, in cui le persone hanno smesso di parlarsi, e queste due Americhe che noi vediamo emergere a ogni elezione non sono mai state così lontane tra loro.
Mi sembra che una delle cose che dovranno fare Biden e Harris se vorranno avere successo sarà anche un po’ cercare di sollevare tutti, di sollevare se stessi al di sopra di queste polemiche e di sollevare tutti da un’esperienza che è stata per molti dolorosa, quella degli ultimi quattro anni, soprattutto quella degli elettori che hanno votato Biden e Harris. Unire il paese vuol dire anche fare un passo avanti rispetto a questi quattro anni così litigiosi. Insomma, la mongolfiera mi sembrava un’ottima metafora e c’è anche un cielo stellato notturno che ci fa capire anche, per quanto sia molto bello, quanto sia difficile il momento attuale degli Stati Uniti: è uno dei momenti più complessi della loro storia, l’abbiamo visto in modo fragoroso con i fatti del 6 gennaio e l’attacco armato al Congresso.
A pagina 9 c’è un passaggio molto significativo: “In un’epoca in cui la politica è dominata dal cinismo e dall’aggressività come unico possibile mezzo di affermazione di sé […], la vicenda personale del 46esimo presidente degli Stati Uniti […] ribalta ogni convinzione sui requisiti necessari a una leadership politica vincente nel Ventunesimo secolo […]”. Può commentare questo passaggio? L’ha scritto pensando a Donald Trump e alle violenze del 6 gennaio?
L’ho scritto prima del 6 gennaio, quindi in realtà poi il 6 gennaio semmai mi ha dato ragione, ma in realtà l’ho scritto anche pensando a Obama, nel senso che non è necessariamente una questione di partiti politici. Poi ognuno ha il suo preferito, ma se pensiamo alle leadership politiche che funzionano di più nella nostra epoca, sia di destra che di sinistra, pensiamo a dei leader molto carismatici che generano molte emozioni nell’elettorato – da chi li ama a chi li odia – e che tendono un po’ a dividere l’elettorato in due, ma che di solito, anche a causa di questo loro essere un po’ fiammeggianti, accentrano moltissime attenzioni e finiscono dall’essere molto amati e andare molto in ascesa a precipitare improvvisamente.
Se facciamo un paio di esempi anche italiani, la recente storia politica italiana è stata caratterizzata da due leadership carismatiche, capaci di generare molte emozioni negli elettori: Matteo Renzi prima e Matteo Salvini poi. Per quanto siano di schieramenti molto diversi hanno avuto una parabola simile, scaldando gli animi, guadagnando moltissimo in termini di consensi e poi afflosciandosi del tutto. Obama ha avuto una parabola diversa, ma era un modello di leadership comunque molto carismatico, molto anche magnetico rispetto alle attenzioni; potremmo poi parlare di Jeremy Corbyn nel Regno Unito: ripeto, politici dalle idee molto diverse, ma questo è lo stile che oggi sembra funzionare di più nella politica contemporanea.
Quando si dice che Biden è noioso, al di là che si possa essere o no d’accordo, questo è proprio quello che lo rende anticiclico, lo rende molto diverso dai politici “che funzionano”, o meglio da quello che pensiamo funzioni oggi nel 2020 e cioè avere un’opinione forte ogni giorno, diventare virali sui social. Ecco, Biden non corre in quella gara, non partecipa a quel campionato. E questo secondo me rende interessante la sua ascesa, perché dopo un anno come questo, che è stato dolorosissimo per tutti, per noi come per gli americani, uno poteva pensare: gli americani non sono mai stati così arrabbiati, in difficoltà, sceglieranno un candidato che urla, un candidato che divide, che si appoggia sull’emotività degli elettori e la cavalca. Invece Biden – ripeto, piaccia o no – ha fatto proprio il contrario, tant’è che gli hanno detto “sei noioso”, “non si sente mai quello che dici”, “non ti fai notare”, eppure è stato il candidato più votato della storia della politica americana e ha un ottimo tasso di popolarità. Poi naturalmente lo valuteremo sui fatti e su cosa succederà, ma se tu dici come si vincono oggi le elezioni, Biden ha vinto facendo il contrario di quello che oggi sarebbe stato nel manuale di come si vincono le elezioni, e questo per me è interessante.
Cosa rappresenta per la storia americana e mondiale il fatto che Trump fino all’ultimo abbia contestato il risultato elettorale, che non si sia presentato alla cerimonia di insediamento di Biden e non l’abbia accompagnato nel consueto tour della Casa Bianca?
Io credo che Trump abbia sprecato molto del suo capitale politico in questi ultimi due mesi. Di quello che ha fatto alla presidenza degli Stati Uniti ognuno può avere il suo giudizio; ha fatto molte delle cose che ha promesso, piacciano o no: ha tagliato le tasse alle imprese, ha bloccato quasi del tutto l’immigrazione, anche con metodi molto duri, ha aperto una guerra commerciale con la Cina – non entro nel merito perché non è questo il punto. Il punto è che lui arriva a queste elezioni perdendo, ma prendendo 74 milioni di voti, che sono tanti. Io ho passato questi ultimi quattro anni a raccontare come non tutti gli elettori di Trump siano bifolchi, razzisti, eccetera, come Trump sia riuscito ad indicare alcune verità che i politici americani non indicavano rispetto a un disinteresse di una certa politica per le vite dei cittadini, una sorta di abbraccio acritico della globalizzazione.
Ecco, tutto questo però, che era parte di un capitale politico che Trump nonostante la sconfitta avrebbe potuto continuare a giocarsi magari ricandidandosi nel 2024, secondo me è stato completamente sprecato, schiacciato e distrutto negli ultimi due mesi, non ci si può girare molto intorno: Trump ha perso le elezioni, che è una cosa sempre brutta ma succede, non ci sono stati brogli, non ci sono state irregolarità – lui stesso nei suoi ricorsi, tutti rigettati anche da repubblicani, non ne aveva mai citate di concrete – e nonostante abbia perso le elezioni ha cercato di rimanere al potere in ogni modo, arrivando a minacciare i funzionari statali degli stati in cui aveva perso, anche repubblicani, perché truccassero i voti e gli dessero la vittoria, convincendo un sacco di persone che le elezioni erano state effettivamente truccate e arrivando, al culmine di questa manovra folle, il 6 gennaio fuori dal Congresso a dire ai manifestanti “dobbiamo combattere”, “dobbiamo smettere di essere così educati”, “dobbiamo farci valere con ogni mezzo”, “dobbiamo marciare verso il Congresso”. E questi hanno marciato verso il Congresso, sono entrati – armati –, i parlamentari sono scappati e soltanto per pochi secondi non sono stati travolti da questa folla, che in certi momenti era un po’ trash ma in altri era armata, intenzionata a fare danni e a fare del male – cinque persone sono morte – mentre i parlamentari stavano ratificando il risultato dell’elezione libera che si era tenuta il 3 novembre.
Ora, restare al potere quando hai perso le elezioni significa tentare un colpo di stato. È grave, è enorme, non si può essere “cerchiobottisti” su questo e dire: “Eh, però, anche gli altri”… Non si era mai vista una cosa del genere, non c’era mai stato un trasferimento non pacifico dei poteri in America. Credo che Trump abbia fatto un grosso errore anche contro il suo interesse perché la sua carriera politica, mi prendo la responsabilità di questa previsione, dal punto di vista attivo da candidato è finita. Oggi Trump non prenderebbe 74 milioni di voti: ne prenderebbe, certo, ma non abbastanza da arrivare a quella cifra; ne prenderebbe 50 milioni, qualcosa del genere, secondo quanto dicono i sondaggi. È qualcosa di molto grave, ha creato un precedente molto grave, e renderà più facile per qualsiasi politico di qualsiasi partito si tratti in America che perde le elezioni campare delle scuse, inventarsi una narrazione infondata, basata sul nulla per sostenere di non aver perso, e magari qualcuno ci riuscirà. Non è detto che siccome Trump non ci sia riuscito, nessuno ci riuscirà mai. Trump non c’è riuscito perché alcuni hanno tenuto la schiena dritta nonostante le sue minacce, ma non è inesorabile che vada così. Questo precedente secondo me è molto pericoloso, è molto preoccupante e su questo non dovremmo dividerci fra quelli a cui piace Trump e quelli a cui non piace, perché è nell’interesse della democrazia, è nell’interesse di tutti, che questo non accada.
QAnon. Tutti ne parlano. Perché?
QAnon di solito viene descritta come una teoria del complotto, ma in realtà non è la solita teoria del complotto: somiglia molto di più a una setta, se vogliamo avere una definizione. È nata nei bassifondi di internet, in certi forum frequentati soprattutto da persone e gruppi di estrema destra, ma soprattutto anche da giovani uomini bianchi che passano un sacco di tempo online, vivono di fatto all’interno di queste comunità, attraverso cose fatte anche per gioco, come una serie di messaggi anonimi che contenevano strane profezie sulla politica americana. Insomma, un gruppo di persone si è convinto che i democratici siano una cabala, una setta satanica di pedofili e cannibali che rapisce bambini in giro per il paese e per il mondo allo scopo di ucciderli, di mangiarli e di violentarli, e che tutto quello che abbiamo visto negli ultimi quattro anni, anche le mosse del presidente Trump, abbia avuto un secondo significato perché Trump in realtà, di nascosto dai riflettori, stava combattendo una guerra contro questa cabala satanista che poi sarebbe foraggiata dai vari George Soros, Bill Gates, tutti quei personaggi che non mancano mai nelle varie teorie del complotto. Questi ci credono veramente, al punto tale che pensavano che Trump sarebbe rimasto presidente; fino al giorno dell’insediamento pensavano che da un momento all’altro sarebbe arrivata l’Fbi ad arrestare tutti. Alcuni erano così fuori di testa che, vedendo Washington con il Congresso blindata per l’insediamento, si erano convinti che non fosse blindata a protezione dai manifestanti che potevano arrivare da fuori, ma che tutto, tutti quei soldati, fosse stato fatto per tenere i parlamentari, Obama, la Clinton lì per poterli arrestare. È un delirio, è un delirio collettivo che ovviamente non ha nessun fondamento.
Volendo possiamo ragionare su come nascano queste cose: la mia idea è che, in alcune persone che hanno sostenuto Trump, questa teoria, questa spiegazione serva a giustificare il proprio sostegno ad un presidente che in moltissimi casi ha fatto del male alle vite degli americani. Penso alla gestione della pandemia: Trump a lungo ha detto che il virus non era da temere, ha detto che si poteva andare a lavorare anche da contagiati, che per curarlo potevamo provare ad iniettarci della candeggina, del disinfettante – cose che soltanto a dirle fanno ridere. Ma come fai a razionalizzare il tuo sostengo per un uomo politico come questo? Devi inventarti che lui in realtà sta combattendo i peggiori del mondo: chi? I pedofili, no, nessuno potrà mai difendere i pedofili e i cannibali. E per molte persone l’adesione a questa setta religiosa, o quasi, è stato un modo per razionalizzare ed elaborare con se stessi il consenso a un politico che invece stava facendo delle cose criticabili, per usare un eufemismo.
Cosa dobbiamo aspettarci ora che gli Stati Uniti sono di nuovo nell’Accordo di Parigi sul clima?
Intanto vale la pena dire due parole sull’Accordo: fu trovato fra tutti i paesi del mondo – credo all’epoca eccetto tre, ma poi sono entrati anche quei tre, forse a parte la Siria che però era in guerra civile – su impulso e spinta degli Stati Uniti, cioè furono gli Stati Uniti a mettere insieme tutti e a trovare qualcosa su cui tutti fossero d’accordo. Ora, questa cosa qui è gigantesca. Poi è chiaro che, per mettere tutti d’accordo, questo patto non potesse essere così ambizioso, però chiunque di noi abbia fatto almeno una volta nella vita un’assemblea di condominio sa che mettere d’accordo 30 persone è difficile: mettere d’accordo 120 paesi, governi di destra, di sinistra, di estrema destra, di estrema sinistra, paesi grandi, paesi piccoli, paesi ricchi, paesi poveri, era stato molto complesso. Questo obiettivo era stato raggiunto solo grazie agli Stati Uniti che poi con Trump invece si erano tirati indietro, facendo venire così a mancare il paese perno, il paese che fungeva anche da pungolo nei confronti degli altri paesi per fare di più.
Il rientro degli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi sul clima di per sé non ci dice che risolveremo il problema del cambiamento climatico ovviamente, però ci dice che quantomeno ricomincerà una discussione, ricomincerà tra gli Stati Uniti e gli altri paesi del mondo una dialettica, un rapporto per cui ogni volta che si parlerà di commercio, ogni volta che si parlerà di industria, di dazi, di alleanze geopolitiche, il clima sarà uno dei temi di cui si discuterà. Per quattro anni non è stato così, anzi, per quattro anni l’amministrazione Trump sia in politica interna che in politica estera ha messo la tutela dell’ambiente come ultimissima delle sue priorità. Quindi questo è già un segnale importante e poi vedremo tante altre cose accadere in politica interna degli Stati Uniti che sono di per sé importanti per tutti, perché gli Stati Uniti sono uno dei paesi responsabili della maggior quota di emissioni inquinanti al mondo e quindi quello che fanno, nel bene e nel male, ci tocca. E anche perché quello che fanno gli Stati Uniti viene molto spesso imitato all’estero: le scelte politiche americane da sempre esercitano un’influenza sugli altri paesi, non su tutti ma su molti, per cui se Trump a un certo punto comincia a liberalizzare le trivellazioni in Alaska per esempio, cosa che ha fatto, diventa più facile politicamente per altri paesi compiere delle scelte simili. Se gli Stati Uniti invece danno l’esempio in un altro modo, diventa più facile per gli altri paesi dire: “Vedete che il mondo va in una certa direzione? Dobbiamo adeguarci”. Questo ruolo di esempio e di guida gli Stati Uniti, che ci piaccia o no, ce l’hanno quindi noi dobbiamo sperare che lo usino nel miglior modo possibile. Biden e Harris hanno promesso di farlo, naturalmente poi dovremo valutarli sui fatti.
Il 61 per cento degli elettori fra i 18 e i 29 anni ha votato per Biden e la loro affluenza è aumentata del 10 per cento. Perché? C’entra il fatto che le nuove generazioni abbiano a cuore la lotta contro i cambiamenti climatici e quindi abbiano voluto sostenere qualcuno pronto a combattere con loro?
Sicuramente sì. Ci sono, ovviamente, molti motivi e poi ogni persona vota per delle istanze che a volte sono anche personali, è difficile fare una radiografia e si rischia di generalizzare. Però, generalizzando con cautela, sono due i motivi principali che hanno spinto i giovani a votare in maggioranza per Biden e a partecipare al voto così numerosi. Il primo è rappresentato dai cambiamenti demografici che stanno attraversando gli Stati Uniti: gli Stati Uniti diventano ogni giorno che passa un paese meno bianco, molto presto i bianchi saranno la minoranza della popolazione, cioè tutte le altre minoranze messe insieme saranno più dei bianchi e molte delle tensioni etniche che vediamo in questi anni, compresa l’ascesa di Trump, si devono anche alla resistenza che i bianchi più conservatori fanno rispetto a questo paese che cambia. Fra i giovani poi, soprattutto, ci sono molti meno bianchi rispetto alle altre fasce generazionali: se si considerano gli americani fino ai 30 anni, già oggi i bianchi non sono più la maggioranza. Oggi il Partito repubblicano – non è sempre stato così, il Partito repubblicano è stato anche il partito degli afroamericani un secolo fa, Lincoln che abolì la schiavitù era repubblicano – è un partito molto bianco, quasi ideologicamente bianco, e quindi la maggioranza dei giovani non può che avere come interlocutore il Partito democratico.
Il secondo tema è sicuramente il clima. In una politica sana bisognerebbe secondo me dividersi su quali sono le cose migliori che dovremmo fare per affrontare la crisi climatica, e ci sono tanti approcci diversi, tanti dibattiti su quali strade bisognerebbe intraprendere e quali no, ci sono anche tra gli esperti tesi diverse su quanto funzionino gli incentivi, l’eolico, come fare a stimolare le rinnovabili. Mentre in una politica sana ci si dovrebbe dividere su questo, nella politica americana la divisione è stata fra chi crede che la crisi climatica esista, e chi crede che non esista. Siccome le prove incontrovertibili che abbiamo, nonché la maggioranza degli scienziati, ci dicono che la crisi climatica esiste ed è anche gravissima, e che forse siamo arrivati a un punto in cui è persino tardi intervenire, e siccome sappiamo che i giovani sono il segmento della popolazione di gran lunga più sensibile su questo tema anche perché sono le persone che dovranno abitare questo Pianeta più a lungo, quindi fare le spese delle conseguenze della crisi climatica, anche lì non c’è molta alternativa: se tu pensi che la crisi climatica esista, oggi c’è un solo partito che puoi votare in America, non c’è grande scelta, e quindi anche per questo Biden ha raccolto questi consensi.
Bisogna dire però che Biden ha promesso una serie di cose, non solo l’Accordo di Parigi in cui è già rientrato; ha promesso anche cose non scontate: in campagna elettorale, durante l’ultimo confronto televisivo con Trump, in un contesto in cui hai tutti gli occhi del mondo puntati addosso, Biden ha detto che sotto la sua amministrazione non avrebbe più concesso alcuna forma di favori, di incentivi fiscali alle aziende che producono carburanti fossili, all’industria del petrolio in sostanza. È una cosa enorme per quello che sono gli Stati Uniti, poi ovviamente vedremo se lo farà o no, però ha preso un grande impegno e non era scontato che se lo prendesse. Ha bloccato, il suo primo giorno da presidente, la costruzione di un oleodotto contestato, il Keystone XL, che dal Canada tagliava tutta l’America fino al sud. Era una questione, questo oleodotto, che aveva diviso molto anche i democratici: lui l’ha bloccato subito, quindi credo sappia che il voto di queste persone continuerà ad averlo solo se “delivera”, come dicono gli americani, cioè solo se dimostra di mantenere le promesse, e credo sia interessato a mantenere questi voti, quindi anche solo per questo penso che sul clima vedremo qualcosa, poi valuteremo se sarà abbastanza, se sarà soddisfacente.
Ha fatto molto discutere, però, la scelta di Biden di mettere Tom Vilsack a capo del dipartimento dell’Agricoltura. Perché?
Questa è stata sicuramente una delle nomine più controverse di Biden. Poi naturalmente su alcune cose c’è molto dibattito anche tra la comunità scientifica, gli ogm ad esempio non sono considerati da tutti il male assoluto, però sicuramente è vero che Vilsack nel suo precedente mandato, nella sua identità di politico risponde ad un identikit d’altri tempi, che ci sembra inadatto in questo momento storico e per questo dico che la sua nomina è stata molto controversa. Il modo in cui io me la spiego è che Biden ha composto tutto il suo governo con persone di cui si fida molto e con cui ha un forte rapporto personale. Al contrario di quello che hanno fatto altri presidenti del passato, questo è stato il principio ispiratore: Biden ha formato una squadra di persone che conosce molto bene. È il caso di Vilsack, che ha un rapporto con Biden da molti anni a questa parte, si fidano molto l’uno dell’altro; per il resto io credo che dovremo valutare quello che farà, criticandolo o elogiandolo a seconda dei casi.
È ancora presto per capire cosa farà Vilsack da segretario dell’Agricoltura; tra l’altro Vilsack dovrà essere, come ogni membro del governo di Biden, approvato in qualche modo dal Senato, con un processo di ratifica. Tutti i membri del governo devono presenziare a delle audizioni durante le quali i parlamentari possono fare delle domande a queste persone, e spesso sono anche delle domande abbastanza appuntite. Io sono curioso di vedere le audizioni di Vilsack per capire quali saranno le domande che gli faranno i senatori del Partito democratico, gli ambientalisti, i senatori che sono più sensibili di lui su questo tema. Sono curioso di sentire le sue risposte, per capire se è rimasto lo stesso Vilsack dell’altra volta o se, dato che il mondo è cambiato, è cambiata l’amministrazione e c’è un altro presidente, lui avrà modificato alcune di queste inclinazioni. Va detto che negli Stati Uniti i membri del governo sono soldati del presidente, hanno poca autonomia politica, e quindi sono molto curioso di ascoltare Vilsack e di vedere quello che farà perché sì, è senza dubbio la nomina più controversa e più strana dell’amministrazione Biden.
All’inauguration day hanno cantato Lady Gaga, il cui nonno è migrato dall’Italia, e Jennifer Lopez, la cui famiglia ha origini spagnole e portoricane. Amanda Gorman, la giovanissima poetessa che ha incantato il pubblico, è afroamericana. Da cosa dipendono queste scelte?
La cerimonia d’insediamento è una cerimonia che ha un altissimo valore simbolico, ci sono simboli ovunque: persino i vestiti, il colore delle cravatte ha un significato simbolico. Tutti abbiamo notato che giurano sulla Bibbia e ci siamo chiesti: “Oh, ma che paese confessionale”. In realtà quella Bibbia ha un significato politico, Kamala Harris per esempio ha giurato sulla Bibbia del primo giudice afroamericano della Corte suprema. È pieno di messaggi simbolici, e quindi anche scegliere chi sono le persone che si esibiranno a cantare l’inno nazionale, o chi sarà il poeta o la poetessa che leggerà la poesia ufficiale dell’insediamento, nessuna di queste scelte è fatta per caso.
Proprio perché si arrivava da un’amministrazione fortemente connotata anche dal punto di vista etnico, molto bianca anche nelle persone che la componevano, e Trump in generale è un presidente che ha dimostrato di riconoscere l’America più autentica nell’America bianca, e ha trattato le persone non bianche in modi che sono stati a volte violenti, aggressivi, anche offensivi, su Twitter e di persona, credo che Biden volesse dare proprio l’immagine di un altro tipo di paese, mettendo in risalto le minoranze etniche, la rappresentanza di popoli poco rappresentati; e questo vale anche per il suo governo, che è il più diversificato della storia. Ha dato il ruolo di segretario degli Affari interni, che in America non è come il nostro ministero degli Interni, ma si occupa soprattutto dei terreni di proprietà federale, a Deb Haaland: una nativa americana, la prima persona nativa americana a far parte del governo federale statunitense, che si occuperà dei terreni federali, cioè dei terreni dei nativi americani, delle riserve, dei terreni che i coloni europei avevano tolto con la violenza ai nativi. Adesso c’è una nativa ad occuparsi di quelle terre lì. È un tentativo che Biden sta facendo di creare un’amministrazione, un governo che somigli all’America. Questo l’abbiamo visto sicuramente anche nella cerimonia.
In un anno segnato dall’assassinio di George Floyd e dalla morte del grande leader per i diritti civili, John Lewis, tantissimi afroamericani hanno votato per Biden. Lui ha sempre dimostrato di essere dalla loro parte, ma in passato è stato criticato per essersi opposto al busing. Perché?
Dunque, la premessa è che gli Stati Uniti hanno avuto quattro secoli di schiavitù, quattro secoli in cui per legge i neri erano considerati come degli animali, potevi ammazzarli, separarli, costringerli a lavorare, torturarli, stuprarli, qualsiasi cosa. E dopo c’è stata la segregazione razziale, cioè dopo la schiavitù erano formalmente liberi, ma c’erano i bar per i bianchi e i bar per i neri, le scuole per i bianchi e quelle per i neri, non potevano votare nella gran parte dei casi; è finita questa segregazione soltanto negli anni Sessanta, parliamo ovviamente dell’altro ieri sul piano storico. Quando è finita ufficialmente la segregazione, di nuovo non è che Johnson firma la legge sui diritti civili e la segregazione è finita e improvvisamente tutti diventano amici e fratelli. C’erano le scuole per bianchi e le scuole per neri e i neri continuavano ad andare in quelle per neri, se provavano ad iscriversi in una scuola diversa finiva male, a volte le loro domande di iscrizione non ricevevano nemmeno risposta se arrivavano nelle scuole dei bianchi, e quindi insomma era una situazione che bisognava scardinare. Negli anni ’60-’70 per scardinare questa situazione sul piano scolastico i tribunali decisero di istituire questa pratica del busing, e cioè c’erano degli scuolabus che ogni mattina andavano a prendere i bambini neri nei loro quartieri e li portavano nelle scuole dei bianchi, a volte anche a decine e decine di miglia di distanza, e alcuni bambini bianchi facevano il viaggio al contrario. Era una pratica ovviamente benintenzionata, serviva a integrare le classi, le scuole e a far stare i bambini tutti insieme, però era molto rozza, cioè non era proprio una situazione ideale: i genitori non potevano decidere dove mandare a scuola i figli perché decideva il governo, e poi gli autobus dei bambini neri quando arrivavano nelle scuole dei bianchi a volte venivano presi a sassate, insultati, a volte doveva essere schierata la polizia per evitare guai, insomma non era una soluzione proprio perfetta, era un tentativo di andare nella direzione giusta. Kamala Harris ebbe quest’esperienza da ragazzina: lei faceva parte delle scuole che adottavano il busing e quindi lei veniva spedita a decine di miglia di distanza, faceva insomma mezz’ora di autobus all’andata e al ritorno per andare a scuola e poi tornare a casa. Biden si opponeva al busing, diceva: questa pratica, per quanto benintenzionata, fa arrabbiare un sacco di gente, non piace quasi a nessuno, crea un sacco di tensioni; quello che dovremmo fare è una vera integrazione residenziale, per far sì che i neri abitino vicino ai bianchi e viceversa. Solo che era molto difficile farlo e quindi all’epoca Biden fu accusato di aver trovato un pretesto per esprimere contrarietà a una misura che, per quanto rozza, era comunque benintenzionata.
Devo dire però che questa non è stata una grossa macchia nella sua carriera, perché Biden non ha mai avuto posizioni segregazioniste, ha sempre difeso i sostenitori dei diritti civili, i diritti civili degli afroamericani, tant’è che lui ha vinto le primarie del Partito democratico quest’anno – stravinto – in pratica solo grazie al voto degli afroamericani. Tant’è che, forse qualcuno si ricorderà, lui nei primi stati perse, in Iowa, in New Hampshire, dove ci sono quasi soltanto bianchi, gli andò anche abbastanza male, arrivò quarto o quinto; quando poi le primarie si sono spostate negli stati che somigliano di più all’America, che hanno cioè una popolazione rilevante di afroamericani, ha cominciato a stravincere. Gli afroamericani si fidano di lui, lo considerano una persona di cui ci si può fidare, un po’ per questa storia, un po’ anche perché lui è stato il vice di Obama, con cui ha un rapporto fraterno; Obama ne parla sempre in un modo che va oltre i complimenti di rito, hanno evidentemente un forte legame. Questo ovviamente ha accentuato la fiducia che gli afroamericani hanno nei confronti di Biden.
Dico comunque una cosa, che anche se Biden dovesse fare il meglio, il massimo, non è che risolverà il problema del razzismo in America. Un errore che è stato fatto con Obama: non si può pensare che dopo quattro secoli di razzismo e schiavitù, con tutto quello che comportano nel formare la cultura di un popolo, arriva il primo afroamericano in 230 anni e risolve tutto. Arriva Biden adesso e in quattro anni cancella il razzismo, questa cosa non esiste. Dobbiamo sperare e devono chiedere gli americani a Biden che faccia alcune cose concrete per limitare quello che loro chiamano razzismo sistemico, quelle leggi che creano delle discriminazioni sistematiche contro gli afroamericani: leggi sul diritto immobiliare, leggi su come avere prestiti dalle banche, le iscrizioni a scuola, la giustizia penale, il sistema giudiziario… ecco, delle modifiche concrete nella vita delle persone. Il razzismo è un fenomeno umano che va combattuto da ognuno di noi nella nostra vita e per essere cancellato richiederà più di quattro anni, purtroppo.
Doug Emhoff, il marito di Kamala Harris, è il primo “second gentleman” nella storia degli Stati Uniti. Si dice possa far evolvere la concezione degli americani dei ruoli di genere in un matrimonio politico. È vero?
Sono assolutamente d’accordo. Penso che questa famiglia cambierà molte cose rispetto alla percezione di come sia una famiglia normale negli Stati Uniti. Le famiglie sono fatte in moltissimi modi diversi, non c’è solo il fatto che in questo caso è lei ad avere l’incarico più importante, che è già una cosa gigantesca, ma la famiglia di Kamala Harris e di Doug Emhoff ha due figli che sono soltanto figli di lui, del suo precedente matrimonio. Ora, queste situazioni nella nostra vita quotidiana sono normali, sono a tutti gli effetti normali; le famiglie, come sappiamo, hanno tante forme diverse. Ma le famiglie dei presidenti e dei vicepresidenti nella storia hanno sempre avuto quest’immagine un po’ da spot del Mulino Bianco: l’uomo, la donna, i figli tutti perfetti, l’uomo che lavora, la donna che fa la casalinga o che comunque rinuncia al suo lavoro per stare accanto al marito.
Queste due famiglie sono molto atipiche: nel caso di Biden, Jill Biden è la sua seconda moglie perché Biden è vedovo; lei continuerà a lavorare, altra cosa che nessuna first lady ha mai fatto prima, lei fa l’insegnante e – certo con più difficoltà di prima, sarà un po’ meno presente – continuerà a insegnare. Nel caso di Kamala Harris e Doug Emhoff, è il modello di una famiglia in cui è la donna ad avere l’incarico più importante ed è l’uomo che lascia il suo lavoro – lui è un importante avvocato – per rivestire questo ruolo di “second gentleman”, che non è un ruolo ufficiale, però data la visibilità e l’esposizione mediatica che inevitabilmente una persona in quella posizione ha, gli americani pensano che quella visibilità vada usata, vada usata per fare del bene e quindi interpretano un ruolo che è soprattutto volto alla beneficienza, alla filantropia; non è un vero ruolo politico, ma può essere d’esempio per molte famiglie americane per sperare che queste scelte, e lo dobbiamo sperare anche qui in Italia, diventino sempre più normali. In una coppia ognuno si adegua alle esigenze dell’altro e non c’è scritto da nessuna parte che debba essere la donna a farlo per l’uomo, ovviamente.
Come cambierà il rapporto fra stampa e Casa Bianca? E lei perché ha scelto di fare giornalismo sui social media?
Il rapporto cambierà molto, il che non è difficile visto che per Trump la stampa era “enemy of the people”, il nemico del popolo: è ovvio che da lì qualsiasi passo in avanti diventa significativo. Un’altra cosa interessante è che la Casa Bianca di Biden ha subito ripristinato la conferenza stampa quotidiana, che si è sempre fatta, un’occasione in cui i giornalisti delle testate di tutto il paese possono chiedere quello che vogliono al portavoce della Casa Bianca; una grande occasione di trasparenza e anche di ingaggio con l’opinione pubblica, di confronto. È capitato infinite volte che un portavoce venisse messo in difficoltà da una domanda di un giornalista. Trump aveva eliminato questa ricorrenza, aveva passato molte settimane senza mai parlare ufficialmente alla stampa, e parlando alla popolazione attraverso Twitter o attraverso le interviste su Fox news: non è un meccanismo sano. Biden e la stampa potranno anche avere un rapporto teso e bellicoso, ma è normale che accada in una democrazia, senza però accusarsi di volere il male della popolazione.
Quanto ai social media, credo che siano inevitabili, nel senso che il mestiere di chi fa il giornalista ha un senso se ha un pubblico: se tu fai un servizio bellissimo, su qualsiasi tema, e non se lo guarda nessuno, il tuo lavoro non ha avuto un senso, perché l’informazione presuppone che lo scopo sia informare qualcuno. E quindi credo che i giornalisti debbano – non è facoltativo – lavorare in modo tale da poter raggiungere il pubblico più ampio possibile. Oggi è stupido non utilizzare i social network a questo scopo, perché i social network sono pieni di un sacco di persone che in molti casi sono interessate a informarsi, e se li si usa nel modo corretto si riesce ad arricchire i propri follower, a far sì che imparino qualcosa, che capiscano qualcosa in più sul mondo. Io credo che per me sia in qualche modo doveroso stare sui social, poi io ho scelto Instagram soprattutto perché è un mezzo che mi piace molto e lo trovo molto stimolante, però c’è chi preferisce farlo su Twitter, Facebook, YouTube, ed è giusto che ognuno trovi la sua formula, il suo genere, la sua voce. Credo che però chi vuol fare il giornalista o la giornalista e si rifiuta di farlo sui social stia decidendo di correre la maratona su una gamba sola. Magari arrivi, però quanto ci metti ad arrivare?
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