Tutti i passi indietro sugli obiettivi del Green deal europeo

Il Green deal europeo è un piano economico e ambientale pionieristico. Ma varie scelte delle istituzioni europee appaiono in contrasto coi suoi obiettivi.

Il Green deal europeo è stato presentato come un piano al contempo economico e ambientale. Una sorta di manovra finanziaria congiunta, da parte dei paesi membri dell’Unione europea, con due obiettivi: da un lato, rilanciare il motore economico dopo le crisi, a partire da quella legata alla pandemia; dall’altro, orientare tale ripresa verso la sostenibilità.

Il tutto con l’obiettivo finale di raggiungere la carbon neutrality entro il 2050, cioè azzerare le proprie emissioni nette di gas a effetto serra. Al fine di garantire i fondi necessari per la transizione, è stato creato un fondo, battezzato Next generation Eu da utilizzare proprio per centrare gli obiettivi del Green deal, per il cui raggiungimento sono state anche pubblicate delle linee guida.

Proprio tale fondo, però, ha fin da subito suscitato critiche e dubbi. Non tutti i fondi, infatti, dovranno andare nella direzione di accelerare “al contempo” ripresa economica e transizione ecologica. Solo il 37 per cento dei capitali deve infatti essere vincolato a progetti compatibili con gli obiettivi del Green deal. Altrimenti detto, due terzi di tale pacchetto da 750 miliardi di euro, potrà anche finire al “business as usual”, ovvero a settori che, paradossalmente, ci allontanano da quegli stessi obiettivi.

Ma soprattutto, come spesso accade, numerose scelte che sono state adottate dalle istituzioni europee negli anni successivi appaiono in aperto conflitto con lo spirito del Green deal. Dai pesticidi agli ogm, dagli allevamenti alla plastica, passando per la tassonomia delle attività economiche considerate sostenibili, ecco tutti i passi indietro dell’Unione europea.

Le decisioni in contrasto con il Green deal europeo

Il “no” del Parlamento europeo alla riduzione dei pesticidi

È ancora in bilico il destino del regolamento Sur per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, fondamentale per mettere in atto la strategia Farm to Fork (dal produttore al consumatore).

Inizialmente, infatti, la Commissione ipotizzava che – grazie agli obiettivi nazionali fissati dagli Stati membri – entro il 2030 si potessero ridurre del 50 per cento l’uso e i rischi dei pesticidi chimici e l’uso dei pesticidi più pericolosi, rispetto al periodo 2015-2017. La Commissione ambiente del Parlamento europeo aveva anche azzardato obiettivi più stringenti, ma il proposito si è infranto contro il no del Parlamento europeo. Il 22 novembre, infatti, gli europarlamentari hanno respinto il testo, rifiutando anche un nuovo rinvio alla Commissione ambiente. La proposta dunque resta in una fase di stallo, appesa alla posizione del Consiglio.

Non tutto è perduto, almeno a detta della coalizione Cambiamo agricoltura, autrice di un appello rivolto alla Commissione europea. Riunitisi per il Consiglio agricoltura e clima, infatti, molti ministri dell’Agricoltura si sono detti favorevoli a trovare un compromesso. Un valido motivo per riprendere i negoziati tra le istituzioni europee.

Altri dieci anni di glifosato

Nell’ambito del Green deal, la Commissione europea ha adottato anche un piano per bonificare gli ecosistemi e ripristinare la natura su terreni agricoli, mari, foreste e ambienti urbani dei paesi membri. Nel testo si parla di un lungo lavoro, da completare entro il 2050. Uno dei punti cardine di tale proposta era rappresentato proprio dalla richiesta di ridurre l’uso di pesticidi chimici.

Ciò nonostante, a novembre del 2023 lo stesso organismo esecutivo dell’Unione europea ha deciso di prolungare di ben dieci anni l’autorizzazione al commercio di prodotti a base di glifosato. Si tratta dei pesticidi più utilizzati in agricoltura, e anche dei più discussi, dal momento che fin dal 2015  lo Iarc, organismo che fa capo all’Organizzazione mondiale della sanità, dal 2015 lo considera come una molecola “probabilmente cancerogena”.

La Commissione europea, tra l’altro, ha deciso di procedere autonomamente alla concessione della nuova autorizzazione, nonostante non ci fosse accordo sul tema tra gli stati membri. Non è stato infatti possibile trovare una maggioranza qualificata tra i governi in grado di approvare la nuova autorizzazione: sarebbero stati necessario quindici stati su ventisette, capaci di rappresentare almeno il 65 per cento della popolazione.

Una protesta contro il glifosato in Germania, il 15 aprile 2023
Una protesta contro il glifosato in Germania, il 15 aprile 2023 © Sean Gallup/Getty Images

Allevamenti bovini esclusi dalla normativa sulle emissioni industriali

Per azzerare le emissioni nette di gas a effetto serra dell’intero Continente entro il 2050, come si propone il Green deal europeo, è indispensabile agire innanzitutto su chi ne genera le quantità più consistenti. Non a caso, esiste già una direttiva sulle emissioni industriali: coinvolge oltre 50mila impianti che, collettivamente, sono responsabili dell’emissione del 20 per cento degli inquinanti nell’aria e nell’acqua e del 40 per cento dei gas a effetto serra nell’Unione. Si tratta di centrali elettriche, raffinerie, impianti per il trattamento e l’incenerimento dei rifiuti, per la produzione di metalli, cemento, vetro, prodotti chimici, pasta di legno e carta, alimenti e bevande e l’allevamento intensivo di suini e pollame.

Nell’aprile del 2022 ha preso il via l’iter di aggiornamento della direttiva, per renderla coerente con gli obiettivi del Green deal. Un obiettivo che è riuscito a metà. Perché, a seguito di un lungo dibattito, Parlamento, Commissione e Consiglio hanno preferito continuare a escludere gli allevamenti bovini dal suo ambito di applicazione. Tra le principali argomentazioni dietro questa scelta c’era la volontà di tutelare i piccoli allevatori, sebbene il testo in votazione si applicasse soltanto alle strutture con almeno 300 capi, cioè meno del 3 per cento del totale.

Come sottolinea Greenpeace, la produzione agricola dell’Unione è responsabile del 93 per cento delle emissioni antropiche di ammoniaca e del 54 per cento di quelle di metano. La normativa in vigore finora copriva solo il 18 per cento delle prime e il 3 per cento delle riforme, un impatto che cambierà soltanto in minima parte a seguito degli ultimi adeguamenti.

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Non solo CO2. Anche le emissioni di metano degli allevamenti contribuiscono al riscaldamento globale © Pixabay/Pascvii

La deregolamentazione dei nuovi ogm

Altro capitolo molto delicato è quello dei cosiddetti nuovi ogm (organismi geneticamente modificati). Tecnicamente, si parla di ogm quando si inseriscono nel genoma di un organismo delle sequenze di dna estraneo; se invece il genoma si modifica inserendo geni provenienti dalla stessa specie, si parla di tecniche di evoluzione assistita o tea (in inglese Ngt, da new genomic techniques). Nonostante una sentenza del 2018 avesse equiparato le tea agli ogm, la Commissione europea ha proposto di trovare per loro un inquadramento differente.

Durante il Consiglio europeo dell’11 dicembre, i ministri dell’Agricoltura hanno respinto una proposta di accordo e stanno ora lavorando per raggiungerne un altro. Il 24 gennaio 2024, la Commissione ambiente del Parlamento europeo ha votato per suddividere in due categorie le tea: la prima equiparabile alle colture tradizionali, la seconda invece da far ricadere nello stesso quadro normativo previsto per gli ogm. In ogni caso, qualsiasi tea verrebbe esclusa dalle coltivazioni biologiche. La plenaria dell’Europarlamento ne discuterà tra il 5 e l’8 febbraio; dopodiché, inizieranno i negoziati con gli stati membri.

Annacquato il regolamento sugli imballaggi

La Commissione europea aveva puntato in alto anche per il regolamento sugli imballaggi (Ppwr: Proposal packaging and packaging waste), il cui obiettivo è quello di ridurre il numero di imballaggi alla fonte e incentivarne il riuso.

La plenaria del Parlamento europeo di fine novembre, però, ha dato il via libera a decine di emendamenti – molti dei quali proposti da italiani – che introducono deroghe importanti. E, in sostanza, annacquano il testo iniziale. Qualche esempio? Vietano le confezioni in miniatura di saponi e shampoo negli hotel, permettendo però bustine monouso di zucchero e salse, piatti usa e getta, imballaggi monouso per frutta e verdura fresca. Esonerano dagli obiettivi di riuso quegli stati che hanno buone performance in termini di raccolta differenziata. Bocciano il deposito cauzionale per lattine o bottiglie di bevande, salvano invece le stazioni di ricarica dei prodotti sfusi (ma dal 2030).

Molto più vicino al testo iniziale, invece, l’orientamento generale del Consiglio, che – tra le altre cose – mantiene gli obiettivi principali per il 2030 e il 2040 sul contenuto minimo riciclato negli imballaggi di plastica, conferma gli obiettivi di riduzione dei rifiuti da imballaggio (5 per cento entro il 2030, 10 per cento entro il 2035 e 15 per cento entro il 2040, rispetto al 2018), conferma i criteri della Commissione per definire gli imballaggi riutilizzabili, fissa nuovi obiettivi di riutilizzo e ricarica per il 2030 e il 2040, ripristina il deposito cauzionale di bottiglie e lattine e il divieto per le confezioni monouso di frutta, verdura e condimenti. Nella prima metà del 2024 si terrà la procedura di conciliazione tra le istituzioni europee per arrivare a una forma definitiva del regolamento.

Tassonomia, gas e nucleare considerati sostenibili

Al fine di indirizzare gli investimenti a favore della transizione ecologica, l’Unione europea ha deciso di studiare e pubblicare una tassonomia delle attività economiche considerate sostenibili. Si tratta di un elenco di ciò che può essere ritenuto utile, a tal fine: un modo per orientare gli investitori, fornendo loro un perimetro di riferimento.

Nonostante l’opinione contraria delle organizzazioni non governative ambientaliste e di numerosi membri del Parlamento europeo, tuttavia, alla fine la tassonomia ha deciso di considerare sostenibili anche due settori estremamente controversi: quelli del gas e del nucleare. Le critiche alla scelta delle istituzioni comunitarie, sul primo punto, sono legate al fatto che il gas è un combustibile fossile che, sebbene risulti meno dannoso di petrolio e carbone in termini di emissioni di gas ad effetto serra, presenta un impatto comunque deleterio.

Non a caso, numerosi studi scientifici hanno spiegato che, se vogliamo ancora sperare di centrare l’obiettivo più ambizioso dell’Accordo di Parigi – ovvero limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 1,5 gradi centigradi, rispetto ai livelli pre-industriali – è necessario lasciare sottoterra tutte le fossili non ancora estratte. E diminuire drasticamente e immediatamente l’utilizzo di quelle già a disposizione nelle riserve. Continuare a bruciare gas, dunque, ci allontana dagli obiettivi climatici fissati dalla comunità internazionale.

Per quanto riguarda il nucleare, poi, benché in termini di emissioni climalteranti esso sia nettamente meno impattante rispetto alle fossili, a pesare sono altri fattori. I rischi per la salute umana e per l’ambiente in caso di incidenti (ove questi non sono mai esclusi al 100 per cento), il problema della gestione delle scorie, e soprattutto i tempi e i costi per la costruzione degli impianti, che appaiono indiscutibilmente incompatibili con la necessità di operare una transizione immediata.

I reattori Epr di ultima generazione, di fabbricazione francese, che sono stati costruiti o sono in costruzione in Europa hanno subito sempre ritardi giganteschi e aumenti dei costi esponenziali. A Olkiluoto, in Finlandia il ritardo è stato di dieci anni e i costi sono più che triplicati rispetto alle previsioni iniziali. Stessa situazione a Flamanville, in Francia: nel dossier di presentazione del progetto, datato 2007, si parlava di cinque anni di lavori e 3,3 miliardi di euro. Siamo nel 2024, il reattore è ancora in costruzione e il costo è stimato a non meno di 19,1 miliardi. A Hinkley Point, nel Regno Unito, è stato di recente annunciato che il nuovo reattore non sarà pronto nel 2025, come previsto inizialmente, e neppure a giugno del 2027, come rettificato in seguito. Occorrerà aspettare almeno la metà del 2029. Inoltre, l’impianto non costerà 25-26 miliardi di sterline, ma almeno 31-35 miliardi. Il doppio di quanto stimato nel 2016, quando si parlò di 18 miliardi.

Le critiche alla nuova Pac, la Politica agricola comune

Alla fine del 2021 è stata approvata la nuova Politica agricola comune (Pac), che rimarrà in vigore fino al 2027. Il programma rappresenta la base per “orientare” le sovvenzioni pubbliche e, più in generale, le politiche rivolte agli agricoltori dei paesi membri. Numerose organizzazioni non governative hanno puntato il dito sulle sue mancanze. La stessa militante svedese Greta Thunberg ha definito il programma “disastroso per il clima e per l’ambiente” e “non allineato all’Accordo di Parigi”.

La principale critica mossa alla nuova Pac è legata all’allocazione delle risorse. Si teme che esse possano andare molto più a vantaggio di grandi gruppi agroindustriali piuttosto che al sostegno ai piccoli contadini. A questi ultimi, infatti, è destinato il 10 per cento degli aiuti diretti. Greenpeace Italia ha spiegato che “la nuova Pac continua a destinare gran parte dei fondi per l’agricoltura al sistema degli allevamenti intensivi. Per difendere il Pianeta è necessario cambiare rotta e siamo qui per fare in modo che accada”.

Inoltre, in linea teorica, la nuova Pac dovrebbe essere più “green”. Una parte del budget sarà destinato infatti agli agricoltori che adottano programmi particolarmente ambiziosi dal punto di vista della conservazione degli ecosistemi. La riforma prevede in particolare che il 25 per cento degli aiuti diretti debbano andare ai cosiddetti “ecoregimi”. Se per chi difende la nuova Pac si tratta di un buon modo per incentivare ad adottare pratiche ecologiche, secondo i detrattori le regole sono talmente poco chiare da aprire facilmente la strada al greenwashing. Inoltre, di fatto ciò significa che il 75 per cento degli aiuti diretti non sarà sottoposto ad alcun vincolo ambientale.

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