
Secondo una stima dei ricercatori del Politecnico di Milano, ci sono molte aree del mondo in cui l’agrivoltaico consentirebbe di coltivare sotto i pannelli solari.
Uno studio ha esaminato diversi scenari per stimare il risparmio di suolo ed emissioni che si otterrebbe espandendo la coltivazione di alghe, sempre più utilizzate e richieste dal mercato.
L’espansione globale della coltivazione di alghe potrebbe contribuire a migliorare la sicurezza alimentare del pianeta, contrastare la perdita di biodiversità e rispondere alle sfide dei cambiamenti climatici riducendo la pressione sulla produzione agricola e il suo impatto ambientale. In che misura ha provato a calcolarlo uno studio dell’Università del Queensland pubblicato su Nature Sustainability.
Utilizzando il Global biosphere management model, i ricercatori hanno esaminato il potenziale dell’allevamento di 34 specie di alghe tra le più importanti commercialmente attraverso cinque scenari e considerando gli effetti, per esempio, sui cambiamenti nell’uso del suolo, sulle emissioni di gas serra, sull’uso di acqua e fertilizzanti.
“Il nostro studio ha scoperto che l’espansione della coltivazione di alghe potrebbe aiutare a ridurre la domanda di colture terrestri e ridurre le emissioni globali di gas serra nell’agricoltura fino a 2,6 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente all’anno”, ha affermato Scott Spillias, tra gli autori dello studio. Secondo i risultati della ricerca inoltre, se il 10 per cento delle diete globali fosse costituito da prodotti a base di alghe, si potrebbe ridurre la quantità di terra destinata all’agricoltura di 110 milioni di ettari, circa due volte la superficie della Francia.
Lo studio ha individuato anche 650 milioni di ettari di oceano idonei all’allevamento di alghe, con le zone più vaste nell’area indonesiana (114 milioni di ettari) e in quella australiana (75 milioni di ettari). Eve McDonald-Madden, coautrice della ricerca, ha sottolineato però che l’allevamento deve essere praticato con attenzione alla sostenibilità per evitare che i problemi della produzione agricola si spostino “dalla terra all’acqua”.
Si stima che le alghe rivestiranno un ruolo importante nella blue economy del futuro in quanto possono essere utilizzate come alimenti e per la produzione di mangimi, farmaci, biocarburanti e bioimballaggi. Secondo la Fao, la produzione di macroalghe marine è più che triplicata negli ultimi due decenni, passando da 10,6 milioni di tonnellate nel 2000 a 32,4 milioni di tonnellate nel 2018. Solo nel 2019 il commercio globale di alghe e prodotti a base di alghe ha raggiunto i 5,6 miliardi di dollari. Da più di un secolo la coltivazione di alghe è praticata in Cina e in altri Paesi dell’Asia come Giappone, Corea, Indonesia, Malesia e Filippine, oltre che in Tanzania. Si trovano produzioni anche in Cile, Canada e Francia.
L’Unione europea è uno dei maggiori importatori di prodotti a base di alghe a livello globale e si prevede che la domanda raggiungerà i 9 miliardi di euro nel 2030, in particolare per la produzione alimentare, cosmetica, farmaceutica e energetica. Finora la produzione interna all’Ue è stata frenata dai costi elevati e da una scarsa conoscenza dei mercati, delle esigenze dei consumatori e dell’impatto ambientale della coltivazione di alghe, ma lo scorso novembre la Commissione europea ha pubblicato 23 azioni per trasformare la produzione delle alghe in un settore solido, sostenibile e rigenerativo in grado di soddisfare la crescente domanda europea e di contribuire al raggiungimento degli obiettivi del Green Deal europeo e della strategia Farm to fork. Si va dallo sviluppo di un nuovo toolkit per gli allevatori di alghe al finanziamento di progetti pilota nel settore fino alla promozione di studi per approfondire, tra le altre cose, le opportunità di mitigazione dei cambiamenti climatici delle alghe che hanno un potenziale nel sequestro della CO2.
Secondo un recente report della Fao, le morbilità e la mortalità legate al consumo di alghe sono rare, ma possono esservi associate alcuni rischi legati a fattori come il tipo di alga, la sua fisiologia, la stagione in cui viene prodotta, le acque di produzione, i metodi di raccolta e lavorazione. Questi riguardano la presenza di metalli pesanti (principalmente arsenico inorganico e cadmio), inquinanti organici persistenti (come le diossine), residui di pesticidi, batteri come la Salmonella, pericoli fisici come schegge di vetro, gusci di crostacei, micro e nanoplastiche, e allergeni. L’invito della Fao è quindi quello di portare avanti discussioni sull’argomento a livello globale e di definire Le linee guida internazionali a riguardo.
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