Prendiamoci cura del clima

Nei ristoranti debuttano i menu a basse emissioni di gas serra

Quando sfogliamo il menu di un ristorante siamo ormai abituati a imbatterci in piatti vegetariani, vegani, gourmet, per bambini. Immaginiamo però di avere una possibilità in più, quella di scegliere le pietanze che provocano il minore impatto sul clima. Accade negli Stati Uniti grazie al World resources institute (Wri) che ha coniato un logo ad

Quando sfogliamo il menu di un ristorante siamo ormai abituati a imbatterci in piatti vegetariani, vegani, gourmet, per bambini. Immaginiamo però di avere una possibilità in più, quella di scegliere le pietanze che provocano il minore impatto sul clima. Accade negli Stati Uniti grazie al World resources institute (Wri) che ha coniato un logo ad hoc, “Cool food meals”. Un metodo semplice e immediato per motivare i consumatori a riflettere sullo strettissimo legame tra il sistema alimentare e i cambiamenti climatici.

Arrivano i menu amici del clima nei ristoranti Usa

“Quando eravamo bambini ci dicevano sempre di mangiare le verdure, e ora abbiamo un motivo in più per farlo. Un quarto delle emissioni di gas serra è dovuto all’agricoltura e alla deforestazione a essa correlata”, commenta Andrew Steer, presidente e amministratore delegato del World resources institute. “Con la nuova certificazione ‘Cool food meals’, i clienti sapranno se le loro scelte alimentari stanno portando benefici al clima. La buona notizia è che oggi abbiamo a disposizione un maggior numero di opzioni che ci aiutano a ridurre il nostro impatto sulle risorse naturali e sul clima, godendoci comunque un pasto gustoso”. La seconda buona notizia sta nel fatto che un logo è per sua natura immediato e spazza via i tecnicismi. Dare un tocco di sostenibilità alla propria vita quotidiana, così, diventa una scelta alla portata di tutti.

Cool food meals
Grazie al logo “Cool food meals”, i ristoranti potranno mettere in evidenza nel menu i piatti a minori emissioni di CO2 © Lexie Barnhorn/Unsplash

La prima a ottenere la certificazione è stata Panera Bread, catena nata in Missouri che oggi conta circa duemila caffetterie, panetterie e pasticcerie tra Usa e Canada. Da tempo la società si distingue per una forte attenzione ai temi della salute e dell’ambiente; risale al 2019 per esempio l’addio definitivo a dolcificanti, coloranti, conservanti e aromi artificiali. Le voci del menu etichettate come “Cool food meals” sono il 55 per cento del totale.

Dietro le quinte di questo simbolo colorato si cela un processo di analisi ben più complesso. Per ogni pietanza, infatti, il World resources institute passa in rassegna la lista degli ingredienti, per calcolare la quantità di suolo necessaria a produrli e le emissioni legate alla loro filiera agricola. I piatti contrassegnati col bollino di garanzia, oltra a essere equilibrati sul profilo nutrizionale, devono mantenersi entro una soglia di emissioni prestabilita.

Fare cultura sull’alimentazione sostenibile

Questa iniziativa è un tassello all’interno di un progetto più ampio, chiamato Cool fool pledge, che è stato annunciato nell’autunno 2018 in occasione del Global climate action summit di San Francisco. Chi aderisce volontariamente a questo manifesto si impegna a ridurre del 25 per cento le emissioni di gas serra legate all’alimentazione entro il 2030. Un risultato che sarebbe sufficiente per limitare il riscaldamento globale entro gli 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, rispettando gli impegni presi nel 2015 con l’Accordo di Parigi sul clima.

A due anni dal lancio, tra i firmatari si annoveravano le città di Milano, Copenaghen, Toronto e Ghent, le università di Harvard, Cambridge, New York e Pittsburgh, la Banca mondiale e diverse grandi aziende. Per un totale di 950 milioni di pasti serviti all’anno. Stando ai dati preliminari sul 2019, complessivamente i membri hanno già sforbiciato le proprie emissioni del 3 per cento. Ciò significa che sono addirittura in anticipo sulla tabella di marcia.

L’approccio adottato non è l’imposizione bensì il nudging, la “spinta gentile” teorizzata dal premio Nobel per l’Economia 2018 Richard Thaler. Oltre a offrire una maggiore varietà di pietanze a base vegetale, infatti, è indispensabile invogliare i consumatori a preferirle, creando piano piano un’abitudine che duri nel tempo. È stato dimostrato che, in molti casi, presentarle con un nome accattivante o metterle in evidenza nel menu può fare la differenza.

Con questo sistema alimentare, l’Accordo di Parigi è irrealizzabile

In questo campo ogni iniziativa è ben accetta, perché non c’è più tempo da perdere. L’ultima conferma in ordine di tempo è arrivata da uno studio pubblicato dalla rivista Science. Negli ultimi anni altri settori hanno fatto decisi passi avanti verso la decarbonizzazione; primo fra tutti quello dell’energia, con l’avanzata ormai inarrestabile delle fonti rinnovabili.

Il sistema agroalimentare globale, invece, è cambiato ben poco. Tra il 2012 e il 2017 ha prodotto circa 16 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno e di questo passo arriverà a un totale cumulativo di 1.356 gigatonnellate entro la fine del secolo, sostiene la ricerca. Basterebbe questo a portare a un riscaldamento globale di oltre 1,5 gradi centigradi negli anni Sessanta del Duemila e di circa due gradi entro la fine del secolo, anche se tutte le altre fonti di emissioni – combustibili fossili in primis – si azzerassero dall’oggi al domani.

“Le emissioni del sistema alimentare sono aumentate per una combinazione di fattori: i cambiamenti nella dieta (più cibo in generale, con una maggiore percentuale di alimenti di origine animale), il volume di popolazione e il metodo con cui il cibo viene prodotto”, spiega Michael Clark, ricercatore dell’università di Oxford, che ha condotto la ricerca insieme ai colleghi degli atenei di Stanford, della California e del Minnesota.

Una possibile via d’uscita: consumare meno carne e latticini

Oggi circa un quarto dei gas serra climalteranti deriva dal settore alimentare, riporta il World resources institute. Una categoria in cui rientrano tanti fattori diversi, dalle emissioni di metano degli allevamenti alla distruzione delle foreste (e quindi della loro capacità di stoccare CO2) per fare spazio a pascoli o coltivazioni intensive. Secondo le attuali proiezioni, nel 2050 le aree coltivate occuperanno 593 milioni di ettari in più rispetto a oggi, circa il doppio rispetto alla superficie dell’India. Uno scenario che non ci possiamo permettere.

C’è una duplice sfida che ha come orizzonte il 2050. Da un lato sfamare una popolazione mondiale che ammonterà a 9,8 miliardi di individui, il che richiederà di incrementare l’apporto calorico della produzione alimentare del 56 per cento rispetto al 2010. Dall’altro lato, far crollare del 67 per cento le emissioni di gas serra legate al cibo, sempre rispetto ai livelli del 2010.

Serviranno nuove tecnologie per incrementare le rese agricole, sviluppare varietà più resilienti, diminuire la necessità di pesticidi. Serviranno precise direttive di carattere politico per evitare la concorrenza tra impiego alimentare ed energetico di alcune colture. Ma servirà anche un’evoluzione culturale che ci coinvolge in prima persona. Il World resources institute è molto chiaro in merito: se vogliamo davvero abbassare l’impatto sul clima della nostra dieta, dobbiamo consumare più legumi e vegetali.

In virtù dello spostamento della popolazione verso le aree urbane e del miglioramento del loro tenore di vita, si stima infatti che nel 2050 il consumo globale di carne e latticini sia destinato a superare quasi del 70 per cento quello del 2010, con un picco dell’80 per cento considerando la sola carne bovina. Peccato, però, che per ogni grammo di proteine una bistecca abbia un impatto venti volte superiore a quello di fagioli e piselli, in termini di consumo di suolo ed emissioni di CO2.

Allevamento di bovini nello stato brasiliano del Maranhão
L’allevamento di bovini è, direttamente e indirettamente, la principale causa di deforestazione nella foresta pluviale amazzonica © Mario Tama/Getty Images

Cresce la consapevolezza sull’impatto ambientale del cibo

Anche grazie alla capillare opera di divulgazione portata avanti in questi anni, si intravedono incoraggianti segnali di consapevolezza. Addirittura negli Stati Uniti, “penalizzati” da una tradizione culinaria in cui carne e alimenti processati fanno la parte del leone. Un americano su due ci tiene a sapere da dove arriva il cibo che porta in tavola, svela una rilevazione condotta nella primavera 2019 su un campione rappresentativo di 1.012 persone. Complessivamente il 54 per cento degli statunitensi (soprattutto tra le donne) dà un certo peso alla sostenibilità ambientale della propria spesa; il primo criterio è la produzione locale, seguito dalla provenienza da fonti sostenibili, dall’assenza di ogm e dalla certificazione biologica.

Al tempo stesso, però, emerge anche un certo disorientamento. Il 63 per cento dei consumatori fa fatica a capire se la propria dieta sia davvero sostenibile. Una percentuale simile sarebbe disposta a fare scelte più consapevoli, se ci fosse maggiore chiarezza in merito. Ed è a questa larga fascia di popolazione che si rivolgono iniziative come il logo “Cool food meals”. Idee che, nella loro semplicità, possono dare quella spinta che innesca un cambiamento reale.

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